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Il marchio imperfetto – Ae 76

Il britannico Financial Times punta il dito contro la certificazione di alcuni produttori equi in Perù. Ma da anni il “movimento” riflette sull’inadeguatezza di un sistema di monitoraggio puramente normativo. Alla ricerca di nuove strade Il Financial Times infiamma il…

Tratto da Altreconomia 76 — Ottobre 2006

Il britannico Financial Times punta il dito contro la certificazione di alcuni produttori equi in Perù. Ma da anni il “movimento” riflette sull’inadeguatezza di un sistema di monitoraggio puramente normativo. Alla ricerca di nuove strade


Il Financial Times infiamma il commercio equo. A settembre, un reportage del quotidiano finanziario britannico ha scatenato la polemica all’interno del movimento e, in Italia, è stato ripreso dal Sole 24 Ore e da La Stampa: “Bitter cost of ‘fair trade’ coffee”, il costo amaro del caffè “equo e solidale”. L’articolo di Hal Weitzman, corrispondente da Lima del Financial Times, racconta che in Perù ci sarebbero produttori di caffè certificato “Fairtrade” che pagano alcuni dei loro lavoratori stagionali al di sotto dei minimi salariali, verrebbero vendute come certificate equo-solidali delle partite di caffè provenienti invece dal mercato tradizionale e infine vi sarebbero piantagioni di caffè certificato in aree protette della foresta.

L’articolo non fa i nomi dei produttori sotto accusa, né indica se si tratta di problemi diffusi, ma getta un’ombra su tutto il processo di monitoraggio, accusato di essere incapace di controllare il rispetto dei criteri fair trade. È un’accusa che tocca una questione delicata, sulla quale da anni il mondo del commercio equo si sta confrontando e sta cercando di sperimentare soluzioni praticabili. Al di là della polemica sui singoli casi e dell’ovvia constatazione che nessun sistema di controllo può essere tanto perfetto da evitare qualunque falla, vale dunque la pena di cogliere l’occasione per capire quali sono i problemi reali che bisogna affrontare, partendo dall’accusa più frequentemente rivolta al mondo del commercio equo, quella di essere troppo autoreferenziale e quindi incapace di fornire garanzie adeguate sul suo operato, come potrebbero fare invece dei “certificatori” esterni.

La percezione di questo problema è chiara anche all’interno del mondo del commercio equo, tant’è vero che il sistema di monitoraggio che in questi ultimi anni è stato implementato da Ifat (la federazione internazionale che raccoglie produttori e importatori), si basa su tre livelli di verifica: l’autovalutazione  di ogni singolo socio, il controllo incrociato  tra i soci e la verifica da parte di soggetti esterni.

Ma la vera difficoltà sta nel garantire che questo processo di verifica non diventi, per i più piccoli e marginali, un meccanismo escludente, basato su normative asettiche e rigide, che non tengono adeguatamente conto delle difficoltà che i produttori incontrano nel loro lavoro e dei progressi che comunque hanno già messo in atto rispetto al mercato tradizionale. Tutte cose difficili da racchiudere in un sistema di norme la cui verifica possa essere affidata a dei tecnici, e che invece costituiscono l’essenza di una relazione di commercio equo realmente paritaria.

Il caso del Perù richiede certamente un supplemento d’indagine, come Flo (Fairtrade Labelling Organizations, la struttura che controlla il marchio “Fairtrade”) si è impegnata a fare, ma svela anche l’inadeguatezza di un approccio puramente normativo al problema della certificazione.

Se è vero che la relazione paritaria e di stretta collaborazione con i produttori è un valore fondamentale del commercio equo, allora si tratta di trovare nuove strade di certificazione, che forse non saranno perfette ma sono un pezzo importante nella costruzione di una economia di relazione e non (solo) di mercato.



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