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Economia / Opinioni

Il malconcio welfare italiano e l’ammortizzatore permanente

© mike nguyen on Unsplash

“La spesa pubblica messa in campo con reddito di cittadinanza, Quota 100 e riduzioni fiscali, al netto della flat tax, non possiede i caratteri dell’incentivo alla ripresa dell’economia ma serve, quasi unicamente, ad arginare la povertà dilagante nel Paese. Se il Paese non è in grado di produrre maggiore ricchezza, sarà inevitabile mantenere in vita questi costosi ammortizzatori sociali. È davvero questa l’unica strada percorribile?”. L’analisi di Alessandro Volpi

Nella politica economica e finanziaria italiana emergono due dati molto evidenti, che suggeriscono una considerazione importante. Il primo è rappresentato da una vera e propria esplosione della spesa pubblica corrente: le stime operate dal Documento di programmazione economica preparato dal governo per il 2019 prevedono una crescita dal 44,8 al 45,7% del Pil, sulla base di una dinamica che risulta differente da quella seguita dagli altri Paesi dell’area euro, dove la spesa diminuisce dal 43 al 42,9%. Si tratterebbe in questo caso di un aumento vicino ai 16 miliardi di euro, ma tale stima pare largamente inferiore alla realtà perché parte dall’assunto di una crescita del Pil più alta di quella elaborata dalle ultime valutazioni. I numeri crudi infatti sono assai più pesanti. Solo per il settore “lavoro e pensioni” (reddito di cittadinanza e Quota 100 insieme ad altre misure di minor impatto) si prevede un incremento di quasi 24 miliardi di euro, che diventeranno 34,4 nel 2020 e 35,4 l’anno seguente. Mentre le spese salgono, le entrate non seguono lo stesso andamento dal momento che gli incrementi per il triennio dovrebbero essere pari “solo” a 51 miliardi di euro di cui però ben 23 dipendono dagli aumenti Iva che il governo ha già dichiarato di voler evitare. Valutando una crescita media del Paese nel prossimo triennio non troppo distante dallo 0,3% annuo, l’intera operazione posta in essere dal governo costa, dunque, circa 8 punti di Pil nello stesso lasso di tempo a fronte di un’incognita non banale sul versante delle entrate.

Sembra inevitabile quindi un ulteriore ricorso al collocamento di titoli del debito pubblico su cui peseranno, oltre alle tensioni politiche, anche i dati già ricordati di crescita della spesa pubblica corrente perché se in Francia la spesa corrente scenderà dal 51,6 al 50,9 del Pil, in Germania resterà stabile al 40%, in Spagna al 38% e in Italia invece salirà, è molto probabile che i compratori del debito italiano, pur adiuvati dalla Banca Centrale Europea, chiederanno interessi sul debito assai maggiori degli 11 miliardi in più già stimati nello stesso Def tra il 2019 e il 2021. Questa esplosione della spesa sarà difficilmente contenibile con operazioni di spending review dal momento che la cosiddetta spesa per i consumi finali, composta dai redditi da lavoro dipendente, dagli acquisti di beni e servizi e dai consumi intermedi, raggiunge in Italia il 18,4% del Pil e conoscerà una riduzione nel 2019 all’18,3%, ma non potrà essere contratta molto di più, vista la sua natura decisamente rigida che obbligherebbe a massicce riduzioni del personale pubblico. Operando una comparazione anche su questo versante, emerge peraltro che la spesa pubblica italiana per consumi finali è più bassa, rispetto al Pil, di quella della Germania e della Francia ed è analoga a quella spagnola. Non è da lì, pertanto, che possono provenire le risorse necessarie per evitare l’aumento del deficit.

Il secondo dato è costituito dal pressoché nullo stimolo alla crescita economica proveniente da una simile, ingente lievitazione della spesa; secondo le stime fornite dallo stesso governo, l’incremento del Pil che ne discenderebbe sarebbe, appunto, intorno allo 0,2% all’anno per un triennio. In altre parole, a fronte di una fortissima spinta alla spesa pubblica, le ricadute sull’economia reale in termini di consumi e di altre voci sarebbero inesistenti. Si trasferiscono nelle tasche degli italiani circa 133 miliardi di euro in tre anni e l’impatto sulla crescita del Pil è pari soltanto a 4 miliardi di euro. Ma come è possibile un risultato di tal genere? Nasce di qui la considerazione a cui si accennava in apertura: è evidente che l’enorme spesa pubblica messa in campo con reddito di cittadinanza, Quota 100 e riduzioni fiscali, al netto della flat tax -il cui impatto peserebbe in maniera ancora più decisiva sulla lievitazione del disavanzo dei conti pubblici- non possiede i caratteri dell’incentivo alla ripresa dell’economia ma serve, quasi unicamente, ad arginare la povertà dilagante nel Paese.

Si configura così come un gigantesco ammortizzatore sociale destinato a trovare la sua giustificazione nell’idea che il welfare italiano sia insufficiente e che le condizioni oggettive di una larga fetta della popolazione italiana non siano più sostenibili; la lotta alla povertà, in questo modo, tende a svincolarsi dallo stimolo alla ripresa e diventa una priorità in quanto tale. Una visione siffatta pone, tuttavia, un duplice problema; da un lato obbligherebbe alla ricerca di coperture finanziarie per evitare il tracollo dei conti pubblici ricorrendo ad una indispensabile manovra fiscale non certo nel senso della riduzione del carico complessivo e dall’altro tende a rendere la crescita della spesa pubblica un dato permanente. Se il Paese non è in grado di produrre maggiore ricchezza, sarà inevitabile mantenere in vita questi costosi ammortizzatori sociali. È davvero questa l’unica strada percorribile?

Università di Pisa

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