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Ambiente / Opinioni

Il linguaggio saccheggiato dell’ecologia

Un'azione di "Greenwash Guerillas" a Londra, luglio 2008 © fotdmike

Sostenibile, rinnovabile, green. Le parole verdi sono ovunque ma hanno perso significato. Una deriva che colpisce il nostro diritto di capire. La rubrica di Paolo Pileri

Tratto da Altreconomia 244 — Gennaio 2022

Non si parla che di Piano nazionale di ripresa e resilienza e transizione ecologica: al bar, al lavoro, al Tg, in ospedale, nei bus e pure dal benzinaio. Da un lato è cosa buona che le parole “verdi” si diffondano, dall’altro è legittimo chiedersi se abbiamo gli strumenti per capire e distinguere. Sia i proponenti (loro) sia i riceventi (noi). Non vorrei mai che questa transizione si rivelasse una grande macchina trita-concetti.

La parola green, ad esempio, la mettiamo davanti a tutto con una disinvoltura da paura. Un pass sanitario oggi è un super green pass. Ma che cosa ha di verde? Molte economie si auto proclamano green economy e noi subito pensiamo siano amiche dell’ambiente. Ma è così? La parola “sostenibilità” è ovunque. Ora è di moda “rinnovabile”. Pare che tutto lo sia, quando quasi nulla lo è, se non con un’overdose di energia e tempo. Per riportare un suolo cementificato a un buono stato ecologico serve tantissima energia che costa e non sempre è pulita. Ma è il tempo quel che mette fuori gioco la rinnovabilità delle risorse. Al suolo servono 500 anni per rinnovarsi di 2,5 centimetri. A noi 3-6 secondi per distruggerlo. Chi deve rinnovarsi? Noi o il suolo? 100% rinnovabile è un’illusione. Sono pericolosi anche i suffissi 4.0 o 5.0, altra illusione pigliatutto che ci rende dei perfetti obbedienti tecnologici e ci serve per costruire un alibi per non cambiare modello. Ma è l’aggettivo ecologico il più massacrato e “snaturato”.

In quasi tutti i Comuni lo abbiamo piazzato al fianco di isola, piattaforma, area, piazzola, stazione, etc. per indicare l’area di raccolta dei rifiuti (incluso le varianti ecoisola/ecopiazzola). Le pattumiere urbane sono tutt’altro che paradisi ecologici. Allora diamogli un altro nome -riciclerie- ma basta confondere le idee alle persone. Piuttosto chiamiamole “punto-di-raccolta-del-fallimento-del-capitalismo” o “tutta-la-forza-del-consumismo-finisce-in-questo-loco”. Così che la gente possa rendersi conto di quanto “bene” funziona l’idea di sviluppo in cui è a mollo. E poi nessuno è un eroe ecologico se butta un frigo in ricicleria anziché in fiume. Fa solo il suo dovere.

Sessant’anni fa usciva “Primavera silenziosa” di Rachel Carson (Feltrinelli) la prima vera lezione ecologica alla politica. “Dobbiamo modificare il nostro modo di pensare, abbandonare il nostro comportamento di altezzosa superiorità”. Tradotto: prima si impara a pensare ecologicamente, poi si disegna la transizione. Del contrario non conosciamo i successi.

Le operazioni verità sulle parole sono fondamentali sia per poter valutare da soli le politiche che si autoproclamano ecologiche sia per metterci in una posizione di comprensione non superficiale. Così fece, sessant’anni fa, Rachel Carson con “Primavera silenziosa” denunciando che l’agricoltura 2.0 del Ddt non era affatto la rivoluzione verde che dicevano. Era morte. Quel libro nel 2022 dovremo ricordarlo perché dimostra ancora oggi che bisogna tenere sempre alta la guardia verso le parole green e le relative soluzioni. Se non le riconosciamo, finiamo per ingurgitare politiche che possono rivelarsi molto diverse dalle parole che le etichettano.

Noi abbiamo un gran bisogno di pensiero ecologico e di governanti che pensano ecologicamente, ma non di ambiguità o manomissioni lessicali. C’è una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, e che ha a che fare con lo sgretolamento del significato di alcune parole e, più in generale, dello stesso diritto a capire. Ci si abitua a non approfondire, ad accettare, a pensare meno. Potrà suonare strano scrivere di parole con un nuovo virus alle porte, ma anche chiarirne il significato può salvare natura e vite umane. Strapparle programmaticamente dalla continua banalizzazione non è mai un’impresa inutile. Anzi è un ottimo proposito per l’anno che verrà, altrimenti la mediocrità le riempirà della sua sostanza mortifera.

Paolo Pileri è ordinario di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano. Il suo ultimo libro per Altreconomia è “100 parole per salvare il suolo”

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