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Il lavoro mascherato – Ae 83

C’è la precarietà nascosta nei dati che segnano l’aumento dell’occupazione. Ecco perché non si può gioire Come sta il lavoro in Italia? Alla fine di marzo l’Istat ha pubblicato le stime ufficiali relative al mercato del lavoro del 2006: l’occupazione…

Tratto da Altreconomia 83 — Maggio 2007

C’è la precarietà nascosta nei dati che segnano l’aumento dell’occupazione. Ecco perché non si può gioire


Come sta il lavoro in Italia? Alla fine di marzo l’Istat ha pubblicato le stime ufficiali relative al mercato del lavoro del 2006: l’occupazione cresce (+ 1,9 per cento in media) e la disoccupazione diminuisce (passa dal 7,7 per cento del 2005 al 6,8 per cento dell’anno scorso).

Dati buoni per la propaganda politica, ma siccome per il 2006 i risultati sono ascrivibili almeno per la metà al governo Berlusconi ed eventualmente solo metà al governo Prodi, né destra né sinistra ne hanno fatto una bandiera.

Attenzione però: su 425 mila nuovi posti di lavoro creati lo scorso anno, 196 mila, ovvero il 46 per cento del totale, sono lavori a termine o precari; ed è proprio quest’area contrattuale che presenta il maggiore dinamismo e che cresce di più in termini percentuali: +9,7 per cento rispetto al 2005.

L’occupazione così come la conosciamo oggi è quindi gravida di precarietà.

Eppure è ancora difficile dire quanto sia grande quest’area: le informazioni statistiche sui lavoratori precari sono frammentate e talvolta non coerenti tra loro. Un recente articolo pubblicato su la www.voce.info (un sito che Altreconomia aveva segnalato ai lettori fin dalla sua nascita) fa per la prima volta i conti integrando le informazioni statistiche disponibili (in particolare la Rilevazione sulle forze di lavoro dell’Istat, la Rilevazione Plus dell’Isfol e i dati degli archivi amministrativi Inps).

Nel pensiero comune forse si immagina che per conoscere il numero degli occupati e dei disoccupati basti accedere agli archivi dei vari Inps, Inail e degli altri enti pubblici e privati, e fare una somma; in realtà (vedi box a pagina 23) i dati ufficiali relativi al mercato del lavoro sono stime e si basano su un campione (77 mila famiglie intervistate) accuratamente intervistato ogni trimestre.

Non è possibile estrapolare le stesse informazioni analizzando i dati già in possesso della pubblica amministrazione. Per esempio l’Inps fornisce sì i numeri di coloro che sono iscritti alla gestione previdenziale separata (quella in cui sono inseriti tutti lavoratori a contratto a progetto), ma il numero (un milione e 475 persone nel 2005) contiene anche pensionati, professionisti, amministratori di società e secondi lavori. Se si considera solo questa fonte quindi il dato sull’area della precarietà risulta sovrastimato, e di molto.



Il mosaico del lavoro precario: 3 milioni e 757 mila persone

Ora la ricerca firmata Emiliano Mandrone (curatore dal 2005 dell’Indagine Isfol Plus) e Nicola Massarelli (ricercatore all’Istat) ricompone i dati di un mosaico sempre più grande e sottolinea le trasformazioni -alcune preoccupanti- del mercato del lavoro: sono circa 3 milioni e 757 mila i lavoratori precari in Italia, ovvero il 14,7 per cento del mercato del lavoro (intendendo qui l’universo degli occupati e dei non occupati con recenti esperienze lavorative: circa 25,6 milioni secondo l’Istat).

Un precario su 4 risulta oltretutto “non occupato”. Si tratta di quasi 950 mila persone, per la maggior parte giovani.

Un universo davvero grande, le cui implicazioni sociali incominciano a preoccupare: non solo la sinistra o il governo ma anche gli economisti di area liberal.

“Negli ultimi anni -scrivono gli autori dello studio- la  precarietà lavorativa ha coinvolto un numero di persone sempre crescente: da disagio individuale è così divenuta un fenomeno sociale che riguarda non solo il mercato del lavoro dei giovani, ma anche le loro scelte riproduttive, i conseguenti comportamenti economici e le ricadute complessive sugli equilibri previdenziali attuali e futuri”.

Nessuno oltretutto sa dire con precisione che cosa succede a una vita precaria: quanto durano i contratti, quante volte si cambia impiego, quante volte si resta senza lavoro alla fine di un contratto, quanto tempo trascorre tra il primo contratto a progetto e il primo contratto di lavoro a tempo indeterminato. Qui le opinioni si sprecano: per alcuni le nuove forme contrattuali avrebbero favorito l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro (e, in effetti, tra il 1998 e il 2006 la disoccupazione giovanile è diminuita di circa 6 punti percentuali) e, alla fine, gran parte di questi contratti a progetto si trasformerebbe in contratti stabili.

Nel gergo degli addetti ai lavori ha fatto la sua comparsa un nuovo verbo: stabilizzare, ovvero trasformare i contratti precari in normali (cioè stabili). Il verbo ha esordito nella grande stampa alla fine dello scorso anno quando la lotta dei precari di Atesia (vedi box), il più grande call center italiano, aveva portato, dopo l’intervento dell’Ispettorato del Lavoro e del governo, a stabilire che quel tipo di lavoro (rispondere e fare telefonate) non poteva rientrare nella categoria “a progetto” ma doveva considerarsi un vero e proprio rapporto subordinato. E l’azienda, che fa capo al gruppo Almaviva (oltre 13 mila addetti nei diversi call center distribuiti nella Penisola) è stata costretta a passare dal centinaio di “stabilizzazioni” previste alle 6.500 dovute. Atesia (fino al 2005 controllata da Telecom) non mostra di avere subìto contraccolpi per queste operazioni.



La questione del tempo

Il problema è che nessuno ancora sa dire entro quanto tempo un contratto a progetto si trasforma (o si dovrebbe trasformare) in contratto definitivo. Quel che è certo, e i numeri delle statistiche ufficiali lo dimostrano (colmando un vuoto della precedente indagine, la nuova rilevazione Istat raccoglie informazioni sulle collaborazioni coordinate e continuative e sulle prestazioni d’opera occasionali), è che l’area della precarietà è in aumento. Inoltre è abbastanza evidente che esiste un pericolo di cronicizzazione: si entra da precari nel mercato del lavoro e si resta tali. Così anche i più strenui difensori della flessibilità e delle nuove forme contrattuali introdotte prima con i co.co.co. (i contratti di collaborazione coordinata e continuativa nati a metà degli anni 90) e poi con la riforma Biagi (2003), riconoscono che “spesso i salari d’ingresso sono al di sotto della soglia di povertà”, e che “si accompagnano a frequenti periodi di disoccupazione”. Il che determina che “tra 20 o 30 anni quando la prima generazione di lavoratori temporanei arriverà all’età della pensione, i contributi versati saranno insufficienti ad alimentare una pensione superiore ai minimi sociali”.

Il lavoro si divide sempre più in buono e cattivo, e tra i due c’è un solco che, per molti, continua ad allargarsi. Secondo alcuni esperti c’è addirittura il rischio di una vera e propria fuga delle imprese dal rapporto di lavoro standard.

A ciò si aggiunga che il “lavoro nero” continua a coinvolgere numeri enormi, tra italiani e stranieri: circa 2 milioni e 800 mila persone secondo le ultime stime ufficiali del 2004. Industria, agricoltura, costruzioni, servizi: nessun comparto produttivo è esente da questa piaga. Questa forza lavoro invisibile vale il 18 per cento del prodotto interno lordo.



Disoccupazione e immigrati


A proposito di stranieri: tra i dati che emergono dalla rilevazione annuale Istat e che meriterebbero qualche approfondimento ulteriore, segnaliamo quello relativo al tasso di disoccupazione degli stranieri che sono in Italia: risulta disoccupato l’8,6 per cento della popolazione straniera (1,8 punti percentuali sopra la media italiana dunque) ma con una forte differenza tra uomini (5,4 per cento) e donne (15,4). Mentre si apre in Parlamento la discussione sulla nuova legge sull’immigrazione che dovrebbe rappresentare un superamento culturale della Bossi-Fini, questo è un dato che converrà tenere presente per rispondere a chi sosterrà che gli stranieri in Italia non lavorano o che sarebbe meglio, prima di consentire nuovi ingressi, far lavorare tutti quelli che sono già presenti nel nostro Paese. Lo scorso anno hanno trovato lavoro 178 mila immigrati regolari (99 mila uomini e 80 mila donne).



Infine, una curiosità: l’agricoltura ha fatto segnare un 3,4 per cento di crescita dell’occupazione rispetto al 2005 (contro il 2,8 dei servizi e la stasi dell’industria). Si tratta di numeri piccoli (34 mila unità) ma forse indicano una controtendenza. Chissà.



La lotta dei call center

Secondo stime recenti, gli addetti ai call center (nella foto) in Italia sarebbero circa 400 mila. Oltre il 75 per cento di loro sono donne e, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, la fascia d’età più rappresentata (65 per cento) è quella compresa tra i 30 e i 49 anni d’età.

Nel giugno 2006 una circolare del ministero del Lavoro ha chiarito che non si può parlare di collaboratori a progetto per la maggior parte degli operatori di call center, ma che si tratta di veri e propri dipendenti.

La tendenza a esternalizzare molte funzioni prima svolte “faccia a faccia” ha consentito ad aziende e pubbliche amministrazioni di abbassare i costi del servizio. Ma in molti Paesi è nata una categoria di lavoratori sottopagati e del tutto precari. E sono cominciate le prime lotte: la più famosa è quella dei precari di Atesia, il più grande call center d’Italia che appartiene al gruppo Almaviva che, da Roma a Catania, da Napoli a Palermo, gestisce il maggior gruppo di call center d’Italia: a lavorare per loro sono in almeno in 13mila, per la maggior parte co.co.pro. La lotta dei precari di Atesia è diventata un simbolo per tanti: dopo due anni di rivendicazioni, l’intervento dell’Ispettorato del Lavoro, del Tar del Lazio e soprattutto del governo, hanno ottenuto un accordo storico: entro il 2007 Almaviva stabilizzerà 4 mila lavoratori inbound (quelli che ricevono le telefonate) e 2.500 in attività mista (inbound e outbound, quelli che fanno le telefonate).





Vademecum del lavoro

Le informazioni sul mercato del lavoro sono frutto delle indagini dall’Istat che, a questo scopo, intervista ogni trimestre un campione di quasi 77 mila famiglie, pari a circa 175 mila individui residenti in Italia (italiani e stranieri).

L’obiettivo principale della rilevazione è quello di monitorare il numero degli occupati e delle persone in cerca di lavoro (quelli che definiamo disoccupati). I numeri che, nella percezione comune, fotografano  il mercato del lavoro, sono dunque delle stime, per quanto ufficiali (e confrontabili con quelle di altri Paesi).

Un piccolo glossario aiuta a leggere meglio le cifre (con qualche curiosità).

Quando si parla di forza lavoro si comprendono in questa categoria sia gli occupati sia i disoccupati.

Dal punto di vista statistico gli occupati sono coloro che, avendo più di 15 anni, hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuita nella settimana a cui si riferisce l’intervista.

I disoccupati sono coloro che non hanno un lavoro (ma questa condizione non è sufficiente per rientrare in questa categoria perché anche la popolazione inattiva non ha un lavoro) e lo stanno cercando; e infatti, più correttamente sono definite persone in cerca di occupazione; comprendono tutti quelli che (tra i 15 e i 74 anni) nei 30 giorni che precedono l’intervista hanno effettuato almeno un’azione di ricerca di lavoro, oppure sono disponibili a iniziare a lavorare entro le due settimane successive.



Il tasso di disoccupazione è il rapporto tra le persone in cerca di  occupazione e le forze di lavoro: persone in cerca di occupazione/forze di lavoro

 

Il tasso di occupazione è invece il rapporto tra gli occupati e la popolazione di 15 anni e più.

Occupati/popolazione di 15 anni e più



Infine il tasso di attività è il rapporto tra le persone appartenenti alle forze di lavoro e la popolazione di 15 anni e più forze di lavoro/ popolazione di 15 anni e più










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