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Economia

Il lavoro che fa la differenza

Le donne sono pagate meno e peggio, ovunque nel mondo. Ma quel che l’opinione pubblica non sa, e le statistiche non dicono, è che le attività formali e informali delle donne -a partire dalla cura- sono il vero motore dell’economia mondiale

Tratto da Altreconomia 99 — Novembre 2008

Shirin vive a Teheran, nell’Iran di Ahmadinejad, un Paese ostile alle donne, alla libertà femminile; ciò nonostante, si è laureata in legge ed è diventata avvocata. Come lei, molte altre iraniane hanno approfittato delle aperture offerte dalle riforme attuate dall’ex presidente Khatami dal 1997, e oggi dirigono ospedali e giornali, lavorano come ingegnere nei cantieri, guidano i taxi… Fanno parte, cioè, del miliardo e 186 milioni di donne lavoratrici presenti nel mondo, secondo le stime previsionali per il 2007 dell’International Labour Organization (Global Employment Trends 2008, Global Employment Trends For Women 2008). Una cifra che rappresenta poco meno della metà della popolazione femminile in età lavorativa (circa 2,4 miliardi) e che nel decennio 1997-2007 segnala un incremento del 18,4%, pari a circa 185 milioni di donne.
Ma questi sono solo numeri. E i numeri non dicono tutta la verità. La verità è che le donne fanno girare l’economia del mondo. Le dimensioni del lavoro femminile sono oggetto di discussione. Secondo Maria Grazia Brinchi, del Comitato nazionale pari opportunità del ministero del Lavoro, infatti,
“il lavoro effettivamente svolto dalle donne rappresenta a livello mondiale i 2/3 del totale”; fuori dalle statistiche restano infatti gran parte dell’economia e del lavoro informale, in cui la presenza femminile è prevalente, e tutto il lavoro familiare non retribuito (domestico, di cura, di acquisizione di beni e servizi…). Un’attività classificata come “non produttiva” anche se, segnala Global Trends, “vi è chi sostiene che in alcune sue parti rappresenti un contributo economico e che chi le realizza debba essere incluso nella popolazione economicamente attiva. Ma questo non accadrà fino a quando non si avrà una (improbabile) revisione delle definizioni utilizzate”.
Questa “improbabile revisione” dello statuto del lavoro familiare non retribuito -più che alla pigrizia mentale degli economisti- è imputabile a una pregiudizio culturale che situa il pensiero sul lavoro e la sua “misura” nell’esperienza maschile e nell’artificiosa separazione tra vita e lavoro operata dagli uomini e dal capitale. Il procedimento che occulta il tempo occupato dal lavoro familiare non retribuito nella vita delle donne (in Italia, in media 5,20 ore al giorno, contro 1,26 degli uomini, secondo Eurostat) e il suo valore materiale e simbolico ha prodotto uno “spostamento” che limita il “territorio” dell’economia (alle sue origini, “il governo della casa”) alle attività/agli scambi che avvengono sul mercato, e al denaro.
Presentando Global Trends, Juan Somavia (presidente dell’Ilo) ha sostenuto che “la disuguaglianza di genere non è solo cattiva politica; è cattiva economia”, e che “attingere al grande potenziale socio-economico delle donne valorizzando il loro status nel mercato del lavoro costituirebbe un beneficio per tutti”. Ripartiamo allora dai numeri. Nel mondo, le donne lavorano soprattutto nel settore dei servizi (nel 2007, il 46,3%), che ha superato per importanza quello dell’agricoltura (36,1%), mentre l’impiego femminile nell’industria si conferma meno importante (17,6%). Alla crescita del numero di occupate, secondo l’Ilo, si aggiungono altri indicatori positivi.
Nella maggior parte delle regioni è aumentato il cosiddetto “lavoro decente” (quello remunerato/salariato, considerato la tipologia che garantisce maggiori diritti e maggior protezione sociale), passato dal 41,8% al 46,4%. Contemporaneamente, è diminuito il totale di quello “vulnerabile” (dal 56,1% al 51,7%), composto da quello ausiliare familiare non retribuito (la cui percentuale scende) e dal lavoro in proprio (che invece aumenta). Nonostante la lieve diminuzione del rapporto impiego-popolazione verificatosi per entrambi i sessi, per le donne questo dato è cresciuto in sei macro-aree su nove (mentre in altrettante, per gli uomini, è diminuito).
Sono cresciuti sia il numero di donne che raggiungono posizioni professionali elevate che l’istruzione femminile: una tendenza particolarmente importante, quest’ultima, per le sue implicazioni future. Ma a fronte dei trend positivi, però, l’Ilo evidenzia con preoccupazione anche diversi elementi critici. La disoccupazione femminile aumenta sia numericamente (dai 70,2 milioni del 1997 agli 81,6 del 2007) che nel confronto con la percentuale maschile (6,4%, contro 5,7%). Il rapporto impiego-popolazione è del 74,3% per gli uomini contro il 49,1% delle donne (a pari “popolazione lavorativa”, gli uomini che hanno un lavoro sono oltre 1,8 miliardi). La popolazione “economicamente attiva” conta 70 donne ogni 100 uomini. Leggendo i dati relativi a questi indicatori, però, si vede che le tendenze (incrementi e diminuzioni) sono le stesse per uomini e donne, ma la dimensione “negativa” è più significativa, in numeri assoluti, per i primi, sia quando le variazioni percentuali sono uguali (data la maggior ampiezza della popolazione di riferimento, la “forza lavoro”) sia -a maggior ragione- quando sono diverse (come nel caso del “tasso di partecipazione”: -1,6% degli uomini, contro -0,4%). Per le donne resta maggiore il rischio di ottenere retribuzioni più basse e di essere impiegate in lavori/settori poco produttivi, scarsamente valorizzati, marginali, “vulnerabili” (in particolare nel lavoro ausiliare familiare non retribuito), privi di protezioni sociali e diritti.
A tutto ciò, inoltre, si aggiunge il carico del lavoro familiare non retribuito, che continua ad essere svolto prevalentemente -quando non esclusivamente- dalle donne, assorbendo una gran quantità del loro tempo e delle loro energie (soprattutto nei Paesi del Sud del mondo) ed ostacolando il raggiungimento della “piena occupazione”. Alcuni dei criteri e dei presupposti adottati, così come alcune delle proposte formulate suscitano però osservazioni critiche. “La definizione del ‘lavoro decente’ -dice Maria Grazia Brinchi- andrebbe ripensata, riformulata alla luce dei cambiamenti avvenuti nel mercato del lavoro”.
Lo stesso concetto di “lavoro vulnerabile”, come segnala lo stesso Ilo, ha molti limiti e ambiguità. Vi è poi chi osserva che oltre a facilitare l’accesso delle donne a un maggior numero di professioni e settori (una misura importante dove vi sono barriere sociali e legali), sarebbe necessario un più ampio e concreto riconoscimento del valore del loro lavoro negli ambiti in cui sono già massicciamente presenti: tra i molti esempi citati vi sono, nel Sud del mondo, l’agricoltura locale su piccola scala, che Lennart Bage, presidente del “Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo” dell’Onu, considera “un modello auspicabile e uno strumento essenziale per far fronte alle crisi alimentari”; o ancora (per stare al nostro contesto e all’attualità) il “sociale” e la scuola, in particolare quella primaria, oggetto di questi tempi in Italia di un discredito che ignora la sua eccellenza, opera delle maestre.

I successi vengono da Sud
Fondato nel 1972 da Ela Bath (ma con origini più lontane nel sindacato dei tessili, di cui la Bath era già dirigente), il Self Employed Women’s Association (Sewa, www.sewa.org) è il primo e il più grande sindacato di lavoratrici dell’economia informale, un settore che in India coinvolge più del 90% delle donne: presente in sei Stati del Paese, conta circa un milione di iscritte. Alla base del suo pensiero e della sua azione, di ispirazione gandhiana, c’è innanzitutto una presa di coscienza che rifiuta la “marginalità” in cui la concezione tradizionale del lavoro colloca questi mestieri e chi li svolge. A questa contrappone -già dal nome- l’idea forte di donne che si auto-impiegano, si organizzano e si danno valore. Al contempo, Sewa è anche un “movimento di donne”, e all’attività sindacale se ne affiancano altre: il sostegno alla creazione di cooperative (cruciale per acquisire la proprietà dei mezzi di produzione e, con essa, l’indipendenza). La creazione di un “welfare”, di una social security che si realizzano attraverso il risparmio, il microcredito, i servizi assicurativi, i centri per la salute, la tutela della maternità e dell’infanzia, la produzione e distribuzione di medicine tradizionali… Nel tempo, ha costruito una leadership femminile capace di dar vita a processi di innovazione sociale e a lotte che producono cambiamenti importanti, a livello concreto e simbolico.
I risultati raggiunti sono molti e importanti: ne sono esempio, fra gli altri, i “guadagni” ottenuti attraverso le tante battaglie sindacali condotte; il successo e la crescita di Sewa Bank (fondata nel 1974, conta oggi circa 300.000 depositi che raccolgono in media 170 euro all’anno ciascuno: “Una cifra enorme per una donna povera indiana” dice Mariella Gramaglia, ex assessora del Comune di Roma che ha lavorato un anno con Sewa); l’adozione da parte del governo nazionale del suo “modello” assicurativo per le neo-madri;
il riconoscimento del suo approccio alla salute da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità; il ruolo avuto nella creazione di altre reti nazionali e internazionali di lavoratrici e lavoratori del settore informale… Nel 1990 Sewa ha dato vita all’Academy, che cura l’alfabetizzazione e la formazione professionale, politica ed economica delle sue iscritte; al suo interno si è sviluppata una passione per il mondo dei media e della comunicazione.
Dall’India al Medioriente e all’Africa. Sono poche, ma in crescita e molto brave: è questa la conclusione cui giunge un recente studio della Banca Mondiale sulle imprenditrici mediorientali e nordafricane (The environment for women’s entrepreneurship in the Middle East and North Africa region, 2007). Smentendo il pregiudizio che le pensava principalmente collocate nel settore informale o nell’ambito delle microimprese, producendo beni e servizi poco “sofisticati”, la ricerca invece dimostra che, nel 31% dei casi, sono a capo di grandi aziende che impiegano oltre 250 persone, mentre solo l’8% sono microimprese; e anzi, in media la percentuale di aziende che hanno più di 100 dipendenti, fra quelle gestite da donne, è maggiore; in generale, inoltre, si tratta di realtà solide, tecnologicamente attrezzate, ben collegate con i mercati internazionali, orientate all’esportazione e con un livello di produttività pari a quello delle “imprese maschili”. Attraggono o investimenti stranieri al pari di tutte le altre o, come accade in Marocco, di più, e utilizzano maggiormente gli strumenti informatici nella comunicazione. Riguardo ai settori, la loro presenza segnala solo una lieve maggiore presenza nei servizi (15%, contro il 10% delle imprese a gestione maschile) e un’altrettanto lieve minore concentrazione nell’industria manifatturiera (l’85%, contro l’88%). Le loro aziende registrano incrementi di assunzioni più elevati, e tendono ad assumere un maggior numero di donne; è maggiore anche la percentuale dei lavoratori qualificati e con competenze professionali (e di donne con queste caratteristiche), nonché la presenza femminile nei livelli manageriali e professionali. Di fronte a tanta bravura, la Banca mondiale si chiede come mai le imprenditrici dell’area siano ancora così poche: e trova la risposta nel contesto sfavorevole dal punto di vista sociale e legale, che costituisce un limite alle loro opportunità.

In italia i conti non tornano
Oltre a essere indispensabile per la vita e il benessere delle persone (e fruito in larga parte dai “maschi adulti”, sottolinea l’economista Antonella Picchio), in Italia il lavoro familiare non retribuito rappresenta il 32,9% del Pil, pari a circa 433 miliardi di euro (di cui il 23,4%, pari a 308 miliardi di euro, è in capo alle donne). Una dimensione analoga a quella del totale delle retribuzioni lorde da lavoro dipendente (fonte Istat). Sono dati di Disuguaglianza di tempo, ricerca realizzata nel 2007 dall’economista Paola Monti.
Val la pena notare che sia il valore totale sia quello della “quota” femminile sono determinati “al ribasso” dai parametri utilizzati per calcolarlo. La ricerca, infatti adotta quelli del “lavoro elementare” (quello meno qualificato e pagato), nonostante molti aspetti di questo lavoro (la cura, la selezione e acquisizione di alcuni beni e servizi) implichi competenze e abilità ben superiori. Inoltre, per rispecchiare i differenziali salariali che tipicamente esistono tra i sessi, applica a uomini e donne due salari orari diversi (a vantaggio degli uomini). Considerando tutte le attività lavorative, pagate e non -dice inoltre lo studio- le italiane lavorano in media, al giorno, un’ora e un quarto in più degli uomini.
“Il mercato del lavoro delle donne è segnato dall’intreccio sistematico tra lavoro pagato e lavoro non pagato” e “la rimozione di questa questione nell’analisi del lavoro femminile è insostenibile e palesemente insensata”, scrivono Antonella Picchio e Tindara Addabbo (Lavoro non pagato e condizioni di vita). L’approccio fondato sulle disuguaglianze di genere e sulle “pari opportunità” (il faro che orienta il pensiero e le politiche sul lavoro femminile), se da una parte tende all’identificazione e al superamento di ingiustificati “privilegi maschili” e delle barriere che le donne incontrano nell’accesso al lavoro e nella loro vita professionale, dall’altra, dice Lorenza Zanuso, sociologa e studiosa del lavoro femminile, “è un impianto teorico costruito sull’assunzione del modello (storicamente) maschile del lavoro come parametro e obiettivo di riferimento”.
Le proposte si concentrano sulle politiche sociali e sulle misure (economiche, fiscali…) necessarie per incentivare la partecipazione femminile al lavoro, ma non toccano l’organizzazione del lavoro. Riguardo poi all’altro aspetto nodale -la partecipazione degli uomini al “lavoro riproduttivo”- i provvedimenti adottati (come il congedo parentale per gli uomini, utilizzato da 4 padri su 100) non hanno visto finora risultati apprezzabili. Il punto non è, dice ancora Lorenza Zanuso (Il Doppio Sì – Quaderni di via Dogana) “di far sì che le donne diventino uguali agli uomini, e di dividersi equamente, a metà, il lavoro che c’è, così com’è”: una prospettiva di inclusione e assimilazione ben poco desiderabile per chi vuole invece “scommettere in grande” e chiede una modificazione profonda dell’organizzazione del lavoro, dei suoi tempi e modi, delle sue logiche di selezione e valutazione, più vicina alla realtà della vita, ai propri desideri e bisogni, più capace di valorizzare capacità e competenze, più a “misura umana”.
Un orizzonte che oggi comincia ad attrarre anche (quanti?) uomini, alla ricerca di un nuovo senso e modo di lavorare.

Microcredito femminile
Juan Somavia, presidente dell’Ilo, è chiaro: “È enorme –e spesso non riconosciuto– il contributo delle donne alle loro famiglie, comunità e società”. Ecco alcuni esempi. Le donne sono protagoniste del microcredito (l’85,2% dei destinatari più poveri, secondo The State of the Microcredit Summit Campaign Report 2007, e il 97% di tutti quelli di Grameen Bank) e dell’agricoltura di sussistenza, che garantiscono la vita di milioni di persone. In molti luoghi sono impegnate a proteggere i beni comuni, le risorse naturali, la pace, e guidano lotte, movimenti e iniziative concrete a loro difesa. Inventano “imprese” che modificano vite e contesti: come l’indiana Ela Bath, fondatrice, nel 1972, del primo sindacato auto-organizzato di lavoratrici dell’economia informale, il Self Employment Women’s Association, che oggi conta un milione di associate e che con Sewa Bank ha avviato nel 1974 (due anni prima della nascita di Grameen Bank) i primi “esperimenti” di microcredito (vedi pagina 16). O come le “Madri di Plaza de Mayo”, che hanno promosso iniziative economiche autogestite (dal mercato del baratto di Lanús alle cooperative di autocostruzione degli abitanti delle “villas miseria” di Buenos Aires, un’esperienza oggi “esportata” in altre zone del Paese). Le donne, inoltre, sono sempre più protagoniste dei fenomeni migratori, sia quantitativamente (sono la metà del totale mondiale, secondo World Survey on the Role of Women in Development 2004) sia perché la decisione è sempre più presa in prima persona, motivata dal desiderio di autorealizzazione, e/o da quello di assicurare una vita migliore ai propri figli, alle proprie famiglie: un fenomeno che ha grandi ricadute sulle economie dei Paesi d’origine e di destinazione, seppure non privo di aspetti problematici e dolorosi.

Quel che i dati non dicono
I dati generali sul lavoro femminile, positivi e negativi, assumono pesi che possono variare significativamente nelle diverse regioni e nei Paesi che le compongono; nelle somme regionali tendono a prevalere i Paesi più popolati e quando non vi sono informazioni le variazioni a livello Paese non sono registrate. Nella loro lettura, inoltre, vanno considerate sia le  caratteristiche di questi studi che i limiti degli strumenti attualmente disponibili: Global Trends prende in esame quattro “categorie” di lavoratori (“remunerati/salariati”, “datori di lavoro”, “lavoratori in proprio” e “ausiliari familiari non retribuiti”), ma non comprende le cooperative di produzione e i cosiddetti “lavoratori non classificabili”. Registra solo in parte il comparto informale (in cui sono impiegate soprattutto le donne), poiché su questo settore, che “nei Paesi in via di sviluppo rappresenta dal 50% all’80% del totale del lavoro non agricolo e una quota ancora maggiore se si include anche questo” (Unifem – Progress of the World’s Women, 2005), solo 60 Paesi su 204 forniscono dati (Onu – The world’s women 2005: Progress in statistics). La difficoltà di misurare con precisione il lavoro femminile, d’altra parte, non riguarda solo questo ambito: la raccolta di informazioni disaggregate per sesso è infatti ancora limitata, disomogenea, spesso incostante.
Sebbene in alcune aree –come l’Africa Sub-sahariana– permangano grandi difficoltà, l’accesso all’educazione e il maggior grado di istruzione si estendono oltre i confini delle regioni più “sviluppate”. “Se in Europa e negli Stati Uniti -dice Lorenza Zanuso, sociologa e studiosa del lavoro femminile- le donne sono la maggioranza dei laureati e la forza lavoro femminile al di sotto dei cinquant’anni è nettamente più istruita di quella maschile”, segnali incoraggianti arrivano anche da altre regioni del mondo. Emblematico il caso dell’Iran, dove le ragazze sono più del 65% degli studenti universitari (erano il 37% nel 1997) e la maggioranza dei laureati in alcune materie. Preoccupato di un possibile “svantaggio maschile”, destinato a ripercuotersi nei prossimi anni sul mercato del lavoro, il governo ha deciso di fissare delle “quote azzurre” a tutela della presenza maschile…

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