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Ambiente / Approfondimento

Il greenwashing dell’industria mineraria, attore chiave della transizione

Nell’Europa settentrionale i progetti estrattivi sono in crescita. Le imprese pubblicizzano piani di riduzione delle emissioni ma le Ong denunciano gravi impatti su ambiente e comunità locali. Il report di “Yes to Life No to Mining”

La comunità indigena Sámi si schiera per la salvaguardia del fiordo Repparfjord © Wim Lassche

I progetti minerari sono in aumento in tutto il Nord Europa. Le compagnie estrattive hanno in concessione più del 15% della penisola scandinava, il 25% dell’Irlanda del Nord e fino al 27% della superficie dell’Irlanda. Basano la propria comunicazione su obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale che sono “molto differenti dalla realtà” e ricordano le strategie di greenwashing, finalizzate a presentare un’immagine aziendale “verde”, attenta e impegnata ma solo in apparenza. A metterlo in evidenza sono gli attivisti dell’associazione Yes to Life No to Mining (YLNM) nei report, pubblicati nel settembre 2021, “A green shift? Mining and resistance in Fennoscandia, Finland, Sweden, Norway and Sápmi” e “Our existence is our resistance. Mining and resistance on the island of Ireland”.

Gli autori fanno più volte riferimento alle principali compagnie che operano in Scandinavia e in Irlanda, territori in cui l’estrazione mineraria è in continua crescita, complice anche l’ingente richiesta di minerali e metalli impiegati nella transizione ecologica. La Finlandia è sul podio dei Paesi interessati con una crescita della produzione mineraria nazionale che è passata da meno di cinque milioni di tonnellate nel 2006 a più di 95 milioni di tonnellate nel 2018. In Svezia da 44 milioni di tonnellate nel 2009 si è passati ad estrarre 88 milioni di tonnellate di roccia nel 2020.

La sola Dalradian Gold, compagnia acquisita dal gruppo di investimento statunitense Orion Mining Finance, ha ottenuto concessioni per il 10% dell’intera superficie dell’Irlanda del Nord e prevede di realizzare un enorme distretto minerario per l’estrazione dell’oro nel deposito Curraghinalt nella contea di Tyrone. Sul proprio sito l’azienda fa ampio riferimento alle politiche ambientali e sociali che supporta e, tra gli obiettivi, mira a essere la prima in Europa a compensare totalmente le proprie emissioni di CO₂.

Nella homepage del sito dalradian.com si parla di sostenibilità ambientale e sociale. I progetti della compagnia vengono presentati come “opportunità uniche”. Fonte: dalradian.com

I fatti riportati dagli attivisti raccontano una storia diversa. “Le comunità locali hanno protestato a lungo perché il governo obbligasse Dalradian Gold a rimuovere dal progetto minerario l’utilizzo di cianuro (impiegato per agevolare il processo di lisciviazione che porta all’ottenimento dell’oro) -si legge nel report-. Inoltre la compagnia si è affrettata a modificare la comunicazione del piano che adesso non prevede più solo l’estrazione di oro ma anche quella di rame e argento: materie prime più affini alla transizione ecologica”. Sempre in Irlanda la compagnia cinese Ganfeng Lithium è proprietaria del 55% del progetto Avalonia (ILC è in possesso del restante 45%): quasi 300 chilometri quadrati a 80 chilometri da Dublino dedicati all’estrazione di litio. Il sito della compagnia riporta tutti gli obiettivi di sostenibilità che il gruppo intende raggiungere e la scelta dei colori e delle forme sembra suggerire un miglioramento dell’impatto che il proprio lavoro avrà sull’ambiente e sulla società nei prossimi anni.

Sul sito della compagnia cinese Ganfeng Lithium vengono riportati tutti gli obiettivi di sostenibilità aziendali con colori e forme promettenti. Fonte: ganfenglithium.com

Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) i processi estrattivi contribuiscono in maniera significativa al peggioramento della crisi climatica, risultano dispendiosi dal punto di vista energetico e sono attualmente responsabili del 10% circa delle emissioni totali di gas serra in atmosfera. “Per ottenere la stessa quantità di materie prime sarà necessario estrarre sempre più roccia a causa di una naturale diminuzione della concentrazione di minerali e metalli al loro interno -spiega Hannibal Rhoades, a capo del progetto Beyond Extractivism per the Gaia foundation-. Questo porterà a un aumento progressivo dei prodotti di scarto delle lavorazioni e dell’inquinamento ambientale”.

Stiamo già assistendo, su scala globale, alle catastrofi causate dalle rotture o dai malfunzionamenti dei grandi bacini di decantazione in cui vengono immagazzinati gli sterili (i residui a grana fine prodotti nel corso delle varie fasi di lavorazione dei minerali). “Pensiamo a disastri come Mount Polley in Canada, al cedimento della diga nella miniera di rame ad Aitik in Svezia, oppure a quello avvenuto in Brasile, nella miniera di ferro di Samarco Mariana, che nel 2015 portò alla morte di 19 persone e alla contaminazione del fiume Rio Doce”, ha aggiunto Rhoades.

Le materie prime più importanti dal punto di vista economico sono dette “critiche” poiché presentano un elevato rischio di approvvigionamento e risultano essenziali nello sviluppo e funzionamento di una vasta gamma di nuove tecnologie. Ogni tre anni la Commissione europea riesamina l’elenco delle materie prime critiche che, al momento, è composto da circa 30 elementi. A queste fonti non rinnovabili, o di difficile accesso, si aggiungono minerali e metalli come il ferro, il rame, l’alluminio, il piombo e lo zinco. “Il fatto che molte di queste materie prime siano necessarie alla transizione ecologica le rende automaticamente parte del Green Deal -afferma Mirko Nikolić, attivista e coordinatore di YLM-, e questo è un problema perché si rischia di considerare le estrazioni minerarie tra i processi ‘verdi’ e sostenibili”.

“L’industria mineraria, i governi e la stessa Commissione europea continuano ad aggiungere minerali e metalli tra quelli considerati ‘critici’ o ‘strategici’, lasciando assumere si tratti di materie prime importanti per la transizione ecologica -sottolinea Lynda Sullivan, ricercatrice e attivista di Friends of the Earth Northern Ireland-. L’oro, ad esempio, viene inserito nella lista dei metalli ‘critici’ dall’Institute of Geologist of Ireland ma viene estratto principalmente per essere utilizzato in oreficeria o come riserva aurea per le casseforti delle banche. Semmai servisse davvero, le quantità estratte finora sarebbero sufficienti per i prossimi due secoli”.

Non si tratta di un caso unico. “Anche il rame -continua Sullivan- che è certamente un metallo importante nel settore delle costruzioni, viene richiesto nell’ambiente del commercio delle armi e, dunque, non trova impiego solo nella transizione ecologica”. La situazione è complessa e le istituzioni, che hanno il dovere di proteggere l’ambiente e le persone che vivono nei territori soggetti alle estrazioni minerarie, intervengono con difficoltà. “La Norvegia permette ancora lo smaltimento degli sterili nel mare -denuncia Nikolić-. Nel 2018 è stato approvato un divieto temporaneo (della durata di quattro anni) che limita gli sversamenti ma i progetti approvati precedentemente prevedono di ricominciare a farlo non appena si potrà. Nel peggiore dei casi la compagnia mineraria Nussir ASA riverserà ogni anno due milioni di tonnellate di sterili nel fiordo di Repparfjord, considerato molto importante per la conservazione e riproduzione dei salmoni atlantici e per l’equilibrio delle piccole economie territoriali.”

A pagare il prezzo più alto sono le comunità locali. “In Lapponia i diritti dei Sámi (popolazione indigena) sono minacciati dalle attività minerarie -racconta Nikolić-. Queste persone vengono spesso lasciate fuori dalle consultazioni politiche e non hanno la possibilità di esprimere le proprie opinioni”. Ad essere maggiormente a rischio sono gli attivisti. Nel report annuale del Global Witness, pubblicato a luglio 2020 (“Defending tomorrow: the climate crisis and threats against land and environmental defenders”) quello estrattivo risultava essere, a livello globale, il settore con il più alto numero di omicidi commessi nei confronti di chi si oppone alla costruzione o all’ampliamento delle miniere nei propri territori (sono 50 gli ambientalisti uccisi nel 2019).

Il grafico mette in evidenza i numeri delle uccisioni di attivisti riconducibili a diversi settori. Quello minerario spicca al primo posto. Fonte: Global Witness

La situazione non è migliorata nel corso del 2020: nell’ultimo rapporto, diffuso a settembre 2021 (“Last line of defence: the industries causing the climate crisis and attacks against land and environmental defenders”), sono 17 le uccisioni riconducibili al settore minerario. “Per una ‘vera’ transizione o trasformazione ecologica sarebbe necessario regolare e controllare rigidamente le compagnie minerarie e invece di aprire nuove miniere, bisognerebbe ridurre l’utilizzo delle materie prime e migliorare l’efficienza dei processi produttivi”, conclude Nikolić.

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