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Finanza / Opinioni

Il Governo Meloni ha già preso i regali per i fondi statunitensi. Lo dimostrano due recenti misure

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Dal nuovo Testo unico sulla finanza cucito sugli hedge fund del risparmio alla proposta di Legge di Bilancio con la rinuncia da parte dello Stato a ogni ipotesi di tassazione sugli extra-profitti bancari: l’esecutivo sta procedendo a grandi falcate verso un potenziamento della finanziarizzazione e della destinazione dei risparmi nazionali in direzione dei grandi fondi Usa. L’analisi di Alessandro Volpi

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e quello dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno appena varato la proposta di un nuovo Testo unico sulla finanza, il cui principale obiettivo è rendere la Borsa di Milano più attraente e più fruibile per i grandi capitali esteri e soprattutto in grado di attirare i fondi internazionali che gestiscono il risparmio italiano. Il progetto è chiaro: gli italiani e le italiane devono diventare soggetti finanziari attraverso la mediazione dei grandi fondi con una semplificazione delle procedure, una deregolamentazione e un abbattimento dei già scarsi controlli. Avranno salari sempre più bassi ma spereranno in un’integrazione del loro misero reddito attraverso una “democratizzazione”, guidata da governo e fondi, della finanza. E questa è la prima misura.

La seconda, ancor più clamorosa, riguarda la riforma del sistema pensionistico che introdurrebbe novità cruciali. Il governo vuole adottare l’obbligatorietà del trasferimento del Tfr a fondi privati defiscalizzati, a cui si unisce la possibilità per gli stessi fondi di scegliere, autonomamente con il silenzio assenso dei loro risparmiatori, cosa comprare, con una larga prevalenza per le azioni. Infine, la proposta del governo contempla un processo rapido di smantellamento dei fondi pensione più piccoli per costruire “colossi”, inevitabilmente legati ai grandi gestori statunitensi.

Il sovranismo “italiano” si è trasformato perciò nella più clamorosa costruzione di un processo che consegna il risparmio dei suoi cittadini alla finanza statunitense per alimentare i titoli americani nella speranza che forniscano rendimenti sufficienti per supplire alla povertà salariale e alla fine dei servizi pubblici. Questa subalternità alla finanza è evidente anche in un’altra presa di posizione dell’attuale esecutivo italiano.

Il Governo Meloni sta chiudendo la Legge di bilancio che vale 16 miliardi di euro; in pratica è del tutto inconsistente, incapace di incidere sulle difficoltà della stragrande maggioranza della popolazione del Paese. Anzi, di quei 16 miliardi, ben 10 provengono da tagli. Dunque, da nuova austerità e nuove privatizzazioni. Ma c’è un aspetto che risulta davvero grottesco. Dei sei miliardi di “entrate”, ben tre dovrebbero venire dalle banche in un modo assai particolare. In che cosa consiste infatti il “contributo” concordato dalle banche con il superministro Giorgetti? In un anticipo di imposte per tre miliardi, appunto.

In pratica le banche pagano subito imposte future che, naturalmente, non pagheranno poi e in cambio ottengono la rinuncia da parte dello Stato a ogni ipotesi di tassazione sugli extra-profitti. In questo senso Meloni e Giorgetti hanno ottenuto, come massimo risultato nei confronti delle banche, un anticipo di liquidità che dovrà restituire il prossimo governo. Davvero fantastico se si pensa che le banche italiane dal 2022 al 2025 hanno realizzato quasi 165 miliardi di utili con un tax/rate medio (rapporto tra tasse pagate e utili) del 22%.

Simili dati relativi alla Legge di Bilancio italiana aiutano a capire un fenomeno più generale. La Francia è praticamente senza governo, l’Inghilterra di Keir Starmer procede tra mille affanni, così come la maggioranza che sorregge Friedrich Merz in Germania. I dati economici dei tre Paesi sono decisamente stagnanti, una situazione questa condivisa anche dall’Italia, tenuta solo molto parzialmente a galla dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Nonostante questo, le Borse di Parigi, Londra, Francoforte e Milano corrono. Perché?

La spiegazione è forse semplice: il valore delle società quotate è alimentato dalle iniezioni di liquidità provenienti dai grandi fondi, a cominciare da quelli Usa, dai profitti fatti dalle stesse società che si dedicano all’acquisto di prodotti finanziari forniti dagli stessi fondi, e dalla distribuzione di dividendi agli azionisti, costituiti proprio dai grandi fondi, e dalle numerose operazioni di buy back, concepite per alleggerire ancora di più la tassazione dei proventi finanziari. In altre parole, le Borse vanno bene perché sono indifferenti alla politica, sempre più subalterna, e rispondono al potere unico dei grandi player finanziari in grado di stravolgere la realtà e di plasmarla a proprio piacimento.

È difficile immaginare, in queste condizioni, strategie di programmazione economica legate a politiche creditizie e occupazionali. Nella finanza occidentale, architrave della costruzione neoliberale, politica, produzione e lavoro sembrano essere sempre più residuali. Gli effetti sono inevitabili; una continua frammentazione della produzione in microimprese che faticano a generare reddito, una crescente indifferenza per le scadenze elettorali e la progressiva, totale dipendenza dalla “democrazia” finanziaria dei fondi, veri arbitri, attraverso la remunerazione del risparmio, delle sorti collettive. Non a caso, il “gioiello” di BlackRock, Vanguard e State Street, la società con la maggiore capitalizzazione al mondo, pari a oltre quattromila miliardi di dollari, ha poco più di tremila dipendenti.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)

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