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Il governo Draghi, tra forzati precedenti storici e convergenze verso l’impossibile

Un governo d’emergenza ormai inevitabile è ben diverso dal sogno, o forse dall’utopia politica, della prima Italia democratica, o dai governi di “compromesso storico” o l’esecutivo Ciampi. Questa stagione tra antipodi è un terreno minato, spiega Alessandro Volpi

Mario Draghi accompagnato da Giovanni Grasso, consigliere del Presidente Mattarella-© Paolo Giandotti - Quirinale

C’è un aspetto della stampa italiana che davvero colpisce. Si tratta della volontà di trovare precedenti storici ai fatti di attualità; nella stragrande maggioranza dei casi il risultato di tale sforzo produce delle inutili e pericolose forzature.
L’accostamento, fatto in questi giorni da alcuni quotidiani, del costituendo esecutivo Draghi ai governi italiani che si successero a partire dall’esecutivo Bonomi del giugno del 1944 è improponibile. Nel governo Bonomi, ancor di più nel successivo governo guidato da Ferruccio Parri e, sia pur pur con tratti diversi, nei primi tre gabinetti De Gasperi, erano presenti le forze del Comitato di Liberazione Nazionale che, per quanto distanti sul piano ideologico, avevano due elementi costituenti comuni.
Il primo era rappresentato dall’antifascismo e dalla necessità di condurre insieme una guerra contro i tedeschi -in particolare i governi Bonomi e Parri- che non solo aveva consentito di superare i distinguo ma aveva rappresentato un vero e proprio tratto fondante, un valore a cui legarsi in modo unitario.
Il secondo, spesso trascurato, era individuabile nello “spirito costituente”, che conteneva molti aspetti di una visione comune della futura Italia. Le culture politiche cattolico-democratica, socialcomunista e liberal-radicale si riconoscevano in una dimensione “popolare” dell’ordinamento democratico in grado di superare le disuguaglianze sociali ed economiche e di realizzare una nozione di cittadinanza finalizzata ad “abolire la miseria”, per citare un centrale testo di Ernesto Rossi. 

Nel giugno del 1944, non a caso, quelle culture avevano condiviso l’idea di dar vita ad un unico sindacato, la Cgil unitaria, in cui erano presenti i comunisti di Di Vittorio, i socialisti del martire Bruno Buozzi e i cattolici di Grandi. In questo senso, sostenere governi di “unità nazionale” era l’espressione di un progetto e di un’appartenenza nazionale che già dal giugno del 1947 sarebbero venuti meno per i primi echi della guerra fredda. L'”unità nazionale” del 1944-1947, dunque, ha ben poco a vedere con la scelta obbligata per le attuali forze partitiche di sostenere Draghi come unica condizione di sopravvivenza, interna e internazionale, di un Paese che almeno dal 2018 vive di continue trasformazioni dettate proprio dalla mancanza dei più semplici denominatori comuni da parte delle diverse forze politiche. Un governo d’emergenza a cui non si può dire di no giunti a questo punto è ben diverso dal sogno, o forse dall’utopia politica, della prima Italia democratica, in grado di declinare in termini concreti la prospettiva dell’unità nazionale. 

C’è un altro accostamento ricorrente in questi giorni che dovrebbe essere valutato con maggiore attenzione. A proposito della formula di governo che Mario Draghi potrebbe porre in essere, si fa riferimento da più parti al modello del governo Ciampi dell’aprile 1993-maggio 1994. Si trattava, in quel caso, di un esecutivo tecnico-politico, con la presenza, appunto, di ministri tecnici indipendenti e di ministri politici. Ora, è abbastanza evidente, scorrendo la lista dei titolari dei vari dicasteri, che la natura politica si traduceva nella presenza di numerosi ministri democristiani, alcuni dei quali dai tratti di grande competenza tecnica, come Beniamino Andreatta, Leopoldo Elia, Piero Barucci, di vari esponenti del Partito socialista, di pochissimi membri del Pds, tra cui Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Augusto Barbera, e di alcune espressioni delle formazioni “laiche”. È evidente, alla luce di ciò, che una simile compagine aveva un grado di omogeneità politica, appunto, ben diverso da un gabinetto Draghi in cui entrassero ministri del Partito democratico, del Movimento 5 Stelle, della Lega, di Forza Italia, di Leu e di altre formazioni presenti in Parlamento, in pratica con la sola eccezione di Fratelli d’Italia. 

Un governo Draghi-Salvini-Zingaretti-Di Maio-Tajani sarebbe davvero un unicum, non certo paragonabile agli esecutivi di unità nazionale del 1944-1947, ai governi di “compromesso storico” e, come accennato, al governo Ciampi. La composizione politica sarebbe infatti caratterizzata da una pressoché totale mancanza di elementi comuni sia sul piano dei contenuti programmatici sia sul piano dei valori. In questo senso si profilano due alternative; o la presenza delle forze politiche all’interno del governo Draghi è solo simbolica, senza avere alcuna intenzione di incidere sulle linee programmatiche, affidate per intero a Draghi -e dunque non si capisce bene la differenza con un governo tecnico del presidente- oppure, qualora fosse reale, aprirebbe una fase della politica del tutto inedita in cui gli antipodi devono convergere verso l’impossibile. 

In ogni caso, la presenza di tutte queste forze nello stesso esecutivo determinerebbe comunque un cambiamento del quadro politico italiano perché, dopo due anni di coabitazione alla guida del Paese, sarebbe molto complicato per Pd, M5s, Lega, Forza Italia e Leu riprendere le proprie strade, avviando una campagna elettorale di scontro al calor bianco nel 2023. È poco credibile, poi, l’idea che il governo Draghi duri meno di un anno per consentire allo stesso Draghi di diventare presidente della Repubblica: in un anno non si esce dalla pandemia e tantomeno dalla crisi economica. Mescolare politica e governo Mattarella-Draghi rappresenta davvero un terreno minato.

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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