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Ambiente / Intervista

Il gesto di cura di Francesco Borella, l’artefice del Parco Nord Milano che compie 50 anni

Un ritratto dell'architetto Francesco Borella

L’architetto e urbanista milanese ha dato un contributo fondamentale alla creazione dei principali parchi della Lombardia. È stato direttore del Parco Nord dal 1983 al 2000, un elemento centrale della città che è arrivato a festeggiare mezzo secolo. Il lavoro di Borella ne ha cambiato la fisionomia e ha trasformato un’idea sulla carta in un progetto di rigenerazione sociale e ambientale sostenuto da cittadini, scuole e amministratori

Francesco Borella non ama definirsi un visionario. Quando ci apre la porta di casa, circondato da faldoni di progetti e da una grande mappa del Parco Nord appesa alla parete, ripete con semplicità che ha solo fatto il suo lavoro. Eppure, senza la sua ostinazione e il suo sguardo lungo, oggi il paesaggio a Nord di Milano sarebbe molto diverso. Sarebbe più grigio, più cementificato, più povero.

Nato a Milano nel 1937, architetto e urbanista, Borella è conosciuto come il “padre” del Parco Nord Milano, uno dei più grandi parchi urbani d’Italia, che nel 2025 compie cinquant’anni. È stato tra i protagonisti della progettazione di numerosi parchi lombardi -dalle Groane all’Adamello Lombardo, dal Parco Adda Sud a quello della Media Valle del Lambro- ma è nel lavoro sul Parco Nord che ha espresso al meglio la sua idea di città e di spazio pubblico.

Laureato in architettura al Politecnico nel 1961, dopo un apprendistato con figure come Angelo Mangiarotti e Giancarlo De Carlo, Borella entra nel 1967 nel Centro studi del Piano intercomunale milanese (Pim), dove inizia a occuparsi di urbanistica e spazi verdi. Sarà proprio in quel contesto che si comincerà a delineare il progetto di un grande parco metropolitano, in una delle aree più segnate dal declino industriale e dalla speculazione edilizia.

Dal 1983 al 2000, Borella è progettista e direttore del Parco Nord e trasforma un’idea rimasta per anni sulla carta in un progetto concreto di rigenerazione urbana e ambientale. Un’idea che parte dal basso, sostenuta da cittadini, scuole, comitati e amministratori locali. Una visione che supera i confini dei singoli comuni e diventa un laboratorio di urbanistica partecipata. Nel 2023 ha ricevuto l’Ambrogino d’Oro. E nel 2025, sotto la guida dell’attuale direttore Riccardo Gini, il Parco celebra il suo mezzo secolo con lo slogan “Straordinario quotidiano”: un omaggio a quella che è forse la più grande qualità di Borella, la capacità di rendere straordinario ciò che nasce da un gesto di cura quotidiano.

La genesi del parco affonda le radici in una stagione di fermento e consapevolezza. Prima il decreto del prefetto di Milano nel 1970, poi la legge regionale del 1975 sanciscono ufficialmente la nascita del Parco Nord. Ma tutto comincia prima: con la mobilitazione di chi voleva salvare dall’abbandono e dal cemento i lembi di terra tra Milano, Sesto San Giovanni, Bresso e Cinisello Balsamo. Il primo nucleo è l’area tra l’aeroporto di Bresso e viale Fulvio Testi. Solo in seguito, anche grazie al lavoro del Pim, il progetto si allarga e si struttura in una dimensione sovracomunale, innovativa per l’epoca.

Questo dialogo -reso possibile anche grazie alla presenza del figlio Giacomo, che arricchisce il racconto con preziose “note a piè di pagina”- ripercorre le tappe di quell’impresa collettiva. Un’impresa che oggi cammina nel verde di ogni sentiero del Parco Nord.

Borella ricorda che negli anni Settanta e Ottanta il territorio a Nord di Milano era segnato da una dicotomia radicale: “Da una parte i Comuni volevano più edilizia: case, espansione urbanistica, servizi. Dall’altra c’erano i resti di un paesaggio agricolo che resisteva, nonostante fosse ormai fortemente compromesso”. Secondo lui, il problema principale non era soltanto il cemento, ma anche l’abbandono: “Terre agricole diventate incolte, invase dai rovi, oppure convertite in parcheggi e depositi”. In quegli stessi anni, spiega, cominciavano a emergere nuove consapevolezze. Tra queste, un’idea che a lui sembrava semplice ma rivoluzionaria: “Il verde urbano non doveva essere solo decorativo o di contorno, ma poteva diventare un elemento strutturale della città”. Non si trattava solo di creare un parco ma di “ripensare il rapporto tra città e natura, ridando valore a un territorio considerato marginale”.

Borella racconta come le prime spinte verso la realizzazione di un grande parco arrivarono dal basso: “Associazioni, comitati, singoli cittadini iniziarono a costruire alleanze, a mappare i bisogni, a proporre visioni”. L’idea era quella di costruire un progetto collettivo, non calato dall’alto ma che rispondesse ai bisogni reali delle persone. Un progetto “necessario nel senso più profondo del termine: qualcosa che doveva esserci, perché il territorio lo chiedeva”. Anche dal punto di vista politico si aprì una fase interessante. Alcuni amministratori cominciarono a capire che quella visione poteva rappresentare un’opportunità: “Non solo per la qualità della vita dei cittadini ma anche per ridare identità a una parte di città che sembrava averla persa”. Secondo Borella, il parco diventava così “un progetto culturale, prima ancora che urbanistico. Un gesto di cura e di riconoscimento”.

L’architetto però sottolinea che nulla fu semplice: “La frammentazione amministrativa, la mancanza di fondi, le pressioni speculative rendevano ogni passo una conquista”. Eppure, proprio in quella condizione precaria si sviluppò “una forma di progettazione partecipata che oggi si direbbe ‘dal basso’, ma che allora era semplicemente una necessità pratica: le risorse economiche erano limitate, quindi si cercavano energie anche altrove”. E queste energie, conclude, “le si trovavano nei cittadini, nei tecnici volenterosi, nelle scuole, nei gruppi ambientalisti”.

Borella precisa che il periodo compreso tra la prima istituzione del parco con il decreto prefettizio del 1970 e il suo arrivo come progettista e direttore nel 1983 fu “denso di avvenimenti importanti”. In quegli anni infatti si cominciò a definire il quadro normativo che avrebbe dovuto guidare la progettazione e la realizzazione di un parco, sottolineando come “fino a quel momento, in Italia, praticamente non c’erano ancora state esperienze su questi temi”. Parallelamente si iniziò a individuare gli strumenti necessari per l’acquisizione delle aree su cui sarebbe sorto il parco. Ad esempio ricorda che per espropriare un’area privata la normativa richiedeva la dichiarazione di “pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere” e che “non era affatto normale farlo per il verde pubblico”. Eppure, “per acquisire le aree del Parco Nord, in quegli anni si cominciò a farlo”.

Borella descrive anche lo sviluppo degli strumenti progettuali del parco, organizzati in tre tappe: “il primo Piano territoriale del Parco, un progetto di massima generale e uno stralcio di progetto esecutivo di circa 100 ettari, comprendente anche l’area aeroportuale, con un costo di realizzazione previsto di 17,6 miliardi di lire”. Questa fase iniziale, secondo lui, pur essendo importante rimase in gran parte sulla carta. L’unica realizzazione concreta fu l’acquisizione di un nucleo di 116 ettari, aggiungendo che questa operazione “lasciò in eredità un debito di otto miliardi di lire, che per gli interessi diventeranno alla fine 17”. Le strategie e i progetti intrapresi fino a quel momento seguivano “una prassi convenzionale che prevedeva di procedere per grandi appalti”, modalità che si rivelò “completamente inadeguata alla situazione economica del consorzio”. In sostanza, “concretamente, non si era ancora fatto nulla e la cittadinanza era impaziente”.

Nello studio dell’architetto © Nicola Villa

La vera svolta arrivò nel 1983, con la nomina di Ercole Ferrario alla presidenza del Parco. “Il nuovo presidente archivia i grandi progetti irrealizzabili, coinvolge l’Azienda regionale foreste per procedere immediatamente alla piantumazione di 11mila alberi nei primi due mesi e affida al Pim un ruolo di progettazione e consulenza”. È proprio Borella, in rappresentanza del Pim, a occuparsene direttamente.

Da urbanista con esperienza concreta, dice di aver scelto di ribaltare completamente il metodo progettuale: “Non più un parco disegnato tutto a tavolino e poi realizzato mediante grandi appalti convenzionali ma un progetto che si sviluppa sul campo, adattandosi via via alle condizioni materiali, alle aree disponibili, alle risorse e persino al coinvolgimento dei cittadini”.

Borella illustra che questa impostazione comportò alcune scelte fondamentali. Innanzitutto, “creare una base operativa interna al parco, che diventerà poi la Cascina, dotata di personale, mezzi, trattori, un’officina, una struttura quasi autarchica”. Poi, “internalizzare le competenze, assumendo direttamente stagionali, affiancando e poi sostituendo gli interventi dell’Azienda foreste, per piantumazioni, manutenzioni”. Infine, evidenzia l’importanza di “far crescere una comunità di operatori e volontari coinvolti attivamente nella realizzazione del parco”.

Francesco Borella ricorda che tra il 1985 e il 1986 elaborò “un primo disegno organico del parco”, ispirandosi anche all’esperienza della Buga di Berlino (Bundesgartenschau), “una mostra-parco temporanea”, e influenzato dalla contemporanea esperienza milanese del Boscoincittà promosso da Italia Nostra. L’idea alla base era quella di “un parco evolutivo”, in cui “le forme e i percorsi si disegnano via via che si costruiscono”. Si lavorava con le aree realmente disponibili, “acquisite poco a poco, di volta in volta con prelazioni, espropri, convenzioni”. Il progetto, dice, diventava così “una struttura adattiva, capace di mutare e crescere con le risorse e le forze a disposizione”.

Borella ripensa che, nel corso degli anni, riuscì a costruire “una vera macchina operativa pubblica”, composta da personale interno, gestione diretta delle opere, capacità progettuale, e un rapporto costante con i cittadini e le amministrazioni. Il Parco “diventa un ente capace di lavorare in autonomia, adattando i progetti alle risorse effettivamente disponibili”.

Alla fine degli anni Novanta, spiega, “ci lavorano 45 persone regolarmente assunte”. Ma, oltre a questo nucleo stabile, fu determinante “la presenza di una rete variegata di cittadini attivi”, che comprendeva “guardie ecologiche volontarie, obiettori di coscienza, associazioni di amici del parco e altre figure”, per un totale di oltre 120 persone coinvolte in modo continuativo. Secondo Borella, fu proprio “questa massa critica di competenze pubbliche e di energie civiche” a permettere al Parco Nord di diventare quello che è oggi: “un progetto vivo, in movimento, costruito insieme”.

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