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Economia

Il fronte del porto

Il porto di Gioia Tauro, pensato come volano economico del Sud, è in crisi e gli operai a casa. Senza lavoro, l’unica a vincere è la ‘ndrangheta Un’auto bruciata, uno dei resti della battaglia di Rosarno contro i “neri”, e…

Tratto da Altreconomia 115 — Aprile 2010

Il porto di Gioia Tauro, pensato come volano economico del Sud, è in crisi e gli operai a casa. Senza lavoro, l’unica a vincere è la ‘ndrangheta

Un’auto bruciata, uno dei resti della battaglia di Rosarno contro i “neri”, e attorno copertoni abbandonati, abbandonati come i capannoni industriali, venuti su con i soldi dello Stato e presto lasciati all’incuria dei giorni. È il paesaggio che costeggia la strada verso il porto, a Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Il porto che da queste parti i politici si erano affrettati a definire “il volano dello sviluppo della Piana e dell’intero mezzogiorno” oggi vive l’affanno della crisi e di scelte industriali contestate, con l’ombra lunga della ‘ndrangheta. A pagare sono solo i lavoratori.
Progettato negli anni 70 come struttura industriale al servizio di un centro siderurgico mai realizzato, il porto si è poi trasformato in un terminal-hub per container. Inaugurato nel 1992, ospita la Mct, azienda leader nella movimentazione dei container, controllata dalla Contship del defunto Angelo Ravano che volle questa opera faranoica. “L’attività del porto -si legge nel sito ufficiale- ha avuto in breve tempo un formidabile decollo, raggiungendo la quota di oltre 3 milioni di container/anno movimentati dalla Società Mct, del gruppo Contship Italia, concessionaria di circa 1,5 milioni di metri quadri di suolo demaniale marittimo”. Ma dopo gli anni dei fasti e dei guadagni, il riflusso.
A inizio febbraio gli operai hanno deciso di salire su una gru per protestare contro le scelte dell’azienda che ha deciso la mobilità per 400 dei 1.400 lavoratori: “Siamo saliti a 60 metri di altezza -racconta Antonio, uno degli operai che ha occupato la gru- per farci ascoltare e difendere il nostro lavoro”. Antonio guarda la gru da sotto: “Questo porto è nostro. È venuto fuori grazie alle rughe delle mani dei gruisti come me e alla professionalità degli operai che lavorano in questo posto fin da quando ha avviato la sua attività”. Antonio ricorda gli anni del boom, il miracolo del porto, primo nel Mediterraneo per la movimentazione dei container, e oggi la cassa integrazione a rotazione per 280 persone (256 operai e 24 impiegati). Iniziata a febbraio, durerà 13 settimane prima di decidere il destino dei lavoratori e delle loro famiglie.
“Questa crisi incombe ancor di più perché il porto di Gioia Tauro è un monolite -denuncia Salvatore La Rocca, segretario confederale della Cgil della piana- e non vi è diversificazione delle attività. Negli altri porti il calo nei flussi di trasporto dei container viene sopperito lavorando altre merci”. Ma c’è un altro aspetto: “Questo porto ha perso competitività, e non certo per colpa degli operai. Un cliente che viene a Gioia Tauro paga di tasse 100, per ancoraggio/pilotaggio, a Malta paga 2, a Tangeri paga 7. Il governo ora deve fare una scelta e decidere se investire o no nel commercio via mare”. 
La crisi però non è solo frutto dell’assenza di un regime di detassazione, ma anche di scelte aziendali contestate. All’azienda Mct si contesta di aver ridotto lo scorso anno le movimentazioni su Gioia Tauro incrementando i flussi di movimentazione a Cagliari e a Tangeri (Tanger Med).
Anche per il sindacato unitario dei lavoratori la cassa integrazione si poteva evitare. “Abbiamo saputo -spiega Antonio Pronestì, segretario del Sul (Sindacato unitario lavoratori)- che c’erano operatori che volevano incrementare il traffico verso Gioia. Spesso ci sono navi in rada che non possono scaricare per mancanza di manodopera, ora in cassa integrazione”.  Una partita a scacchi dove il regime di monopolio, tasse esorbitanti e l’assenza di istituzioni forti ha una sola vittima: i lavoratori. “Noi sappiamo una sola cosa -conclude Antonio-: se chiude anche questa realtà a vincere sarà la mafia che in questa terra resterebbe davvero l’unica risposta all’assenza di lavoro”.
Perché la ‘ndrangheta dal porto -dopo esservi entrata- non è più uscita.
Fin dalle sue origini, da quando doveva diventare industriale, la mafia calabrese ha fatto capire che non c’era porto senza la ‘ndrangheta. La relazione della commissione antimafia, riprendendo sentenze e atti giudiziari, lo scrive con chiarezza: “Il processo (denominato ‘Porto’) conclusosi nel 2000 ha dimostrato che la realizzazione del più importante investimento di politica industriale mai pensato per il Sud era stato proceduto da una preventivo accordo con le cosche della piana di Gioia Tauro […], unite in un unico cartello e unitariamente rappresentate nelle trattative dal boss Piromalli”.
Le ‘ndrine che hanno lucrato sul porto sono i Pesce-Belloco di Rosarno, i Molè e i Piromalli di Gioia, un tempo alleate, e gli Alvaro. Gli interessi: controllo della costruzione, ditte della mala al lavoro, e l’uso del porto come porta di ingresso di droga, rifiuti, tabacco e merci contraffatte. Ingressi illegali possibili anche grazie a funzionari infedeli e controlli doganali irregolari. Come emerge dall’ultima indagine, denominata “Maestro”, che nel dicembre scorso ha portato in manette 27 persone e al sequestro di 50 milioni di euro. I cinesi facevano entrare di tutto e pagavano la mazzetta alle ‘ndrine. Arrestato anche un imprenditore: Cosimo Virgiglio aveva portato i soldi della ‘ndrangheta fuori porta, a Monteporzio Catone, in provincia di Roma, dove li aveva investiti comprando un complesso alberghiero. Oggi Virgiglio collabora con la giustizia e riempie pagine di verbali, indica i nomi dei politici di riferimento e racconta che il boss Rocco Molè, attraverso la sua ditta, voleva entrare negli affari del porto e avrebbe fatto pressioni sui politici amici per ottenere la nomina di un proprio uomo nell’autorità portuale, poi sfumata.
Insomma la ‘ndrangheta da sempre nel porto ha trovato terreno fertile per i suoi traffici. Ora in vista del nuovo piano infrastrutturale, dopo l’approvazione del piano regolatore portuale e dei futuri investimenti, le ‘ndrine sono pronte a fiondarsi sull’affare.
La politica è l’altra assente in questa partita fatta di crisi e speranze disattese. Quando c’è è dedita a spartire e lottizzare. Nella relazione dell’Antimafia sulla mafia calabrese si evidenziavano a proposito del porto e della sua gestione “la confusione di poteri e competenze”, lo spreco di risorse pubbliche ingenti per gli emolumenti e “i conflitti tra enti, aggravati dall’assenza di controlli e di coordinamento da parte della Regione e degli altri enti locali”.
Se si guarda agli “enti locali” nella piana di Gioia Tauro si scopre infatti la fragilità dello Stato. Rosarno, Gioia Tauro, Seminara, Taurianova, Rizziconi: tutti Comuni azzerati per infiltrazione mafiosa. A Rosarno non si torna al voto perché la ‘ndrangheta era già pronta a tornare al comando, come scritto nel decreto di proroga dello scioglimento della giunta. A Gioia, invece, ci sono le elezioni: i candidati proveranno a fare meglio dell’ex primo cittadino, Giorgio Dal Torrione, finito in carcere perché “eletto e a disposizione della ‘ndrangheta”.
Qui lo Stato è passato, ma è stata una visita passeggera. La ricordano come la “stagione” dei sindaci antimafia: Peppino Lavorato a Rosarno (che ebbe il merito storico di costituire il Comune come parte civile nel processo “Porto”), Aldo Alessio a Gioia. Alessio racconta così la sua esperienza: “Il buon governo non significa voti e consenso. Meglio la clientela e la spartizione, quella che ha regnato a Gioia e che ha caratterizzato anche la crescita del porto. Il porto doveva essere il volano del Mezzogiorno, ma l’assenza di programmazione politica e logiche clientelari ne hanno condizionato il presente e il futuro”. E poi l’affondo finale: “Il problema è che in queste terre l’imprenditoria è un azzardo, e la politica gioca a fare la comparsa”.

Lavoro in catene
Intervista a Roberto di Palma, pm a Reggio Calabria
È tra i magistrati di punta della direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, il pm Roberto Di Palma ha firmato importanti inchieste sul crimine organizzato, le collusioni con la politica e gli affari sporchi al porto di Gioia Tauro.
La mafia calabrese ha accompagnato la nascita e lo sviluppo del Porto di Gioia Tauro?
“Senza dubbio. È stato accertato proprio nel processo ‘Porto’, istruito dalla procura di Reggio e tenutosi presso il tribunale di Palmi. Il porto nasce con un peccato originale, con un asserito e provato, anche giudiziariamente, accordo tra gli imprenditori del Nord che hanno voluto il porto, e le famiglie mafiose locali. Le ‘ndrine, fin dall’inizio, hanno garantito coperture ambientali, ma anche di carattere istituzionale e politico, in cambio della costruzione del porto. C’è una intercettazione importante che diede vita a quel processo. Uno degli imputati in visita a Lucernate di Rho, in provincia di Milano, dove c’è la sede della Medcenter, si propone agli interlocutori affermando ‘Noi siamo il passato, il presente e il futuro’. Questo spiega meglio di ogni altra cosa cosa significa la ‘ndrangheta nel porto”.
Senza l’accordo mafia-impresa nessun porto dunque.
“Assolutamente sì, sono numerosi i passaggi che hanno evidenziato questi aspetti di contiguità”.
Le ‘ndrine hanno spesso rivendicato “il porto è cosa nostra”. E lo sviluppo economico nella piana è condizionato dalle ‘ndrine. Con quali effetti?
“La presenza delle ‘ndrine presenta risvolti drammatici non solo da un punto di vista giudiziario, ma anche e soprattutto sociale. Io ricordo di una sentenza di condanna, non ancora definitiva, dove emerge che nella realizzazione di grandi opere pubbliche in Calabria, il ruolo svolto anche da sindacalisti, legati a cosche mafiose, è quello di sostituirsi agli uffici di collocamento. In una regione dove la disoccupazione raggiunge cifre preoccupanti, il consenso sociale è rappresentato da chi può garantire un posto di lavoro. Pensi ad una famiglia media della piana di Gioia Tauro, con figli disoccupati e sogni da costruire: quando la ‘ndrangheta si sostituisce allo Stato diventando un punto di riferimento anche nella distribuzione di posti di lavoro, la forza attrattiva delle cosche diventa dirompente. In un recente processo, durante una testimonianza in dibattimento, un collaboratore di giustizia ha spiegato che un boss convocava, in periodo elettorale, i dipendenti di una società che gestisce i rifiuti nella piana di Gioia Tauro, e chiedeva i voti -famiglia per famiglia- per i candidati della cosca. La ‘ndrangheta garantisce le assunzioni, controllando le ditte, poi chiede i voti per i candidati, controllando di fatto il consenso elettorale e stringendo un patto di ferro anche con la politica”.
Un sistema dove si intrecciano i soggetti dell’agire democratico: impresa, politica, economia. La ‘ndrangheta mette le mani in tutti i settori e si confonde con le professioni. Per questo è così forte?
“Precisiamo, ed è doveroso: non possiamo fare di tutta l’erba un fascio.
Le responsabilità sono individuali e bisogna aspettare la sentenza definitiva. Detto questo, i fatti ci dicono che c’è sotto inchiesta l’ex sindaco di Gioia Tauro. Vicino alla conclusione, anche il processo contro l’ex sindaco e il consiglio comunale di Seminara. Insomma, fatte le dovute precisazioni, quello che dice ha un suo fondo di verità tragico, ma attuale e concreto”.
A Reggio bombe contro la procura generale, proiettili, intimidazioni.
"Ci sono indagini in corso, ma le dico una cosa: da queste parti c’è un detto calabrese che incarna il potere ‘ndranghetista e dice ‘abbassati giunco perché sta passando la piena’. La logica della mafia calabrese, insomma, è lavorare sotto traccia: un metodo che le ha consentito di diventare potente e vincente in tutto il mondo. Basti pensare che il primo omicidio di ‘ndrangheta in Australia, lontano dalla terra calabrese, ci fu agli inizi del 900. Gli ultimi episodi raccontano che la politica della ‘ndrangheta sta cambiando, a meno che non ci si trovi di fronte a cellule impazzite”.

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