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Altre Economie

Il fallimento dell’agricoltura

Chi lavora la terra non campa. La monocoltura intensiva non ripaga i costi, specie se i prezzi li fa la grande distribuzione. Il sistema rischia il collasso

 

Tratto da Altreconomia 123 — Gennaio 2011

Un passaggio a volo radente sul mondo dell’agricoltura italiana permette di scoprire una miniera di paradossi.

Li incontri su ogni zolla di terra, dietro ad ogni euro speso, sui banconi di tutti i supermercati. Sono emblematici di un settore economico che riceve miliardi di euro di sovvenzioni pubbliche, soprattutto europee, e permette enormi profitti alle catene di distribuzione, ma che vive allo stesso tempo una crisi così forte da mettere a rischio l’esistenza stessa dell’agricoltura. Camparne, infatti, è sempre più una scommessa: secondo l’istituto di statistiche europeo, Eurostat, nell’ultimo anno il reddito da lavoro agricolo è sceso in media del 12,2% in Europa, e più del doppio in Italia, dov’è crollato a -25,3%. Due le cause principali: la prima è l’aumento dei costi di produzione, nell’ordine dell’8-9%, che ormai rappresentano il 43% del valore della produzione finale in un settore sempre più macchinizzato, monocolturale -più di tre quarti delle aziende italiane sono specializzate in un solo prodotto- e intensivo, che richiede a piene mani prodotti chimici a base di petrolio.

A soffrire di più sono i settori del latte e della zootecnia, che hanno costi “fissi” maggiori. La seconda causa è la diminuzione del valore della produzione agricola, data dalla contrazione dei prezzi riconosciuti ai prodotti della terra, in media meno 15,2% delle quotazioni agricole. L’Inea, Istituto nazionale di economia agraria, rincara la dose: secondo gli ultimi dati diffusi, fra il 2008 e il 2009 il valore della produzione agricola italiana è sceso dell’8,3%, a fronte di una contrazione del 2,5% della quantità prodotta. A complicare il tutto le prospettive della riforma della Politica agricola comunitaria (Pac): se, come sembra, nel 2013 i fondi subiranno un drastico ridimensionamento, dovuto anche all’allargamento della Pac ai 27 Paesi dell’Unione Europea, la nostra grande agricoltura si sarebbe giocata anche l’ultima carta prima del fallimento.

Le cause della crisi sono un groviglio complicato da sciogliere, che cambia da territorio in territorio, da prodotto a prodotto. Su un aspetto tutti gli attori che ruotano intorno a questo mondo sono però d’accordo: è emergenza perché i prodotti ci sono, ma hanno poco mercato.

Il nostro viaggio inizia in Sicilia, terra degli agrumi, ma anche del clima secco che rende dorate le spighe del grano duro. Lo scorso anno nell’isola molti raccolti sono rimasti a seccare sui campi perché non valeva la pena raccoglierli, e conveniva attendere nei porti le navi cariche di merce a buon prezzo che provenivano dal Canada. Ettore Pottino è presidente della Confagricoltura di Palermo, l’associazione di categoria che riunisce i grandi produttori. “Il problema -spiega- è a monte. Con la globalizzazione dei mercati le materie prime agricole dei Paesi ricchi non sono più competitive, e non riescono a reggere la concorrenza. Per pareggiare i conti dovremmo vendere il grano a 28 centesimi al chilo: lo scorso anno quello di mercato era a 13, e oggi segna 18 centesimi. Se aggiungiamo che la stessa Unione Europea che sovvenziona l’agricoltura permette l’ingresso di partite di materie prime agricole in periodi di crisi, allora la schizofrenia è totale”. “La Sicilia -prosegue Pottino- è fuori dai mercati: negli anni scorsi la Barilla era scesa da noi per vedere se era possibile un accordo, ma senza successo. Il risultato di tutto questo è che molti rinunciano a seminare e abbandonano il territorio. Se oggi va un po’ meglio è solo perché gli effetti della crisi di produzione in Russia hanno fatto alzare le quotazioni del grano”.

Morte tua, vita mia. Un racconto simile lo troviamo più a Nord, al confine fra Lazio e Campania. Antonio è un piccolo agricoltore infaticabile. Lavora a Sperlonga (Lt), nei paraggi di Fondi, dove ha sede uno dei più grandi mercati ortofrutticoli generali, il Mof, noto alle cronache per essere controllato dalla criminalità organizzata. “Vendiamo la lattuga solo perché ci sono state le alluvioni in Veneto. Bietola, verza e cavolfiore li buttiamo: non riusciamo a venderli, e comunque non converrebbe.

La situazione sta degenerando: le aziende della nostra zona sono indebitate e rischiano di andare all’asta. Le cartelle esattoriali di Equitalia arrivano a una velocità impressionante, e i procedimenti giudiziari sono ancora più rapidi. Le banche stanno stringendo la corda sulle aziende e non esiste una politica agricola rurale, soprattutto per le piccole e medie imprese”. Difficile è vendere i prodotti: “La grande distribuzione e i grandi mercati ci mettono in ginocchio -aggiunge Antonio-. Il Mof di Fondi controlla dall’alto tramite appalti e subbappalti la produzione di tutto il territorio. I prezzi degli ortaggi sono bassissimi: i supermercati vogliono solo prodotti di eccezionale qualità. Il sistema non è solo in mano alla mafia, è mafioso di per sé. Servono alternative subito”.

Solo chi riesce a strappare qualcosa ai “grandi distributori” se la passa un po’ meglio, ma i costi sono alti. Ci spostiamo in Pianura Padana. Apo-Conerpo è un gruppo ortofrutticolo, un’associazione di 8.700 produttori, riuniti in 45 cooperative distribuite in varie Regioni. Ogni anno mette in commercio quasi un milione di tonnellate di frutta e verdura. È leader nel settore del pomodoro e Conserve Italia è uno dei suoi associati. Le cooperative aderenti sono riuscite a rimanere competitive grazie ai sussidi della Pac, utilizzati per modernizzare la produzione. Sono fra i pochi che riescono ancora ad investire: un’indagine di Agri2000 ha mostrato che le imprese agricole professionali che non riescono a farlo sono oggi il 71% del totale. Secondo “farmsubsidy.org”, un sito di informazione che raccoglie migliaia e migliaia di dati aggiornati sui sussidi Ue all’agricoltura, dal 2004 Apo-Conerpo ha ricevuto più di 83 milioni di euro di contributi. “Dobbiamo ammettere che senza i contributi europei sarebbe difficile sopravvivere -spiega ad Ae uno dei responsabili tecnici, Giuseppe Pallotta-. Abbiamo creato due società di commercializzazione per organizzare meglio questa fase decisiva. Riusciamo a collocare tutta la nostra merce, ma non possiamo certamente dettare le condizioni alla grande distribuzione, che ha maggiore forza. In genere quanto viene dato al produttore è un sesto della spesa finale. Certo, c’è da mettere in conto anche i loro costi e i legittimi guadagni, ma il prezzo al dettaglio subisce indubbiamente un incremento troppo grande. D’altra parte dobbiamo rassegnarci, perché le alternative sono poche: i consumi ormai viaggiano dentro i centri commerciali”.

Un sistema che crea anche valanghe di sprechi: “Noi -aggiunge Pallotta- cerchiamo di dare i prodotti migliori. Sui banchi dei supermercati ci sono giorni in cui volano via, altri in cui la vendita è meno rapida. Purtroppo i prodotti stessi deperiscono, e c’è uno spreco altissimo”. La critica ai centri commerciali accomuna soggetti impensabili: dal piccolo coltivatore biologico, alla grande azienda di trasformazione. Proprio su questo aspetto l’Antitrust ha aperto qualche settimana fa un’indagine conoscitiva per verificare il livello di concorrenza e le dinamiche con i fornitori accolta con soddisfazione dalle associazioni di agricoltori. Anche Federalimentare, la categoria che unisce i “trasformatori” di prodotto -la gran parte sono piccoli e medi produttori, una galassia per dimensioni simile a quella agricola-, vuole vederci più chiaro. “Deve essere riequilibrata la catena del valore fra i vari settoriafferma il responsabile studi e ricerche di Federalimentare Luigi Pelliccia-. La grande distribuzione ha avuto i suoi meriti e fa bene il suo mestiere, ma copre ormai il 70% del mercato e la sua capacità di contrattazione è schiacciante nei confronti dei piccoli, trasformatori e agricoltori. Negli ultimi 10 anni ha conquistato un 10 per cento in più del valore finale. Servrebbe una disciplina più attenta”. Sulle cifre è guerra.

Federdistribuzione riunisce i grandi aderenti del settore alimentare come Auchan, Bennet, Carrefour, Esselunga, Finiper, Pam, Sma, Il Gigante, Unes e altre. Insieme hanno fatturato 87 miliardi di euro nel 2009, gestendo più di 46mila punti vendita. La “filiera” dell’ortofrutta -secondo Federdistribuzione- comporta che per ogni euro pagato al dettaglio 37 centesimi vadano all’agricoltura, 33 alla trasformazione e 30 alla distribuzione. La Coldiretti non è d’accordo: per le associazioni di agricoltori al massimo il 17% del valore finale va all’agricoltore, il 23% al trasformatore e ben il 60% alla grande distribuzione.

Vanes Cantieri è il responsabile ortofrutta di Coop Italia. L’azienda non aderisce a Federdistribuzione, ma condivide la sua visione. “Semplificando -dice Cantieri- posso dire che un terzo della torta se la aggiudica l’agricoltura. Il resto deve assorbire i costi che abbiamo, soprattutto i trasporti. Pensare che abbiamo impatti così devastanti sul mondo produttivo è un teorema poco condivisibile. Il nostro peso è determinante, ma questa è una logica conseguenza del mercato moderno. Noi di Coop peraltro saltiamo i passaggi di filiera, rivolgendoci senza intermediazioni a più di 14mila aziende agricole. Coloro che lavorano con noi non sono così insofferenti, e i nostri trend di crescita sono alti.

Il prezzo lo fa il mercato, è la legge della domanda e dell’offerta”. Sarà la legge del mercato, ma a sorridere sono in pochi e per resistere è necessario attrezzarsi diversamente. Chi può investe in altri settori: negli ultimi anni sono nati in 121mila agriturismi, che stanno mantenendo in piedi migliaia di piccole realtà agricole. Un altro ambito d’investimento sono le energie rinnovabili, dalle biomasse al fotovoltaico, sovvenzionate dalle Regioni a patto che la produzione non superi il 50% del fatturato delle aziende, com’è fissato da una circolare del luglio 2009 dell’Agenzia delle Entrate. Dal grano all’energia è spesso una questione di sopravvivenza.

 

Sussidi a rischio
L’agricoltura è in crisi, nonostante sia uno dei settori a cui il pubblico dedica più attenzione.

I bilanci del ministero presieduto dall’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan sono sani, grazie anche all’enorme apporto di denaro che proviene dall’Unione Europea tramite la Politica agricola comunitaria (Pac). Dal 2002 al 2008, l’Italia ha ricevuto 33 miliardi di euro dall’Ue “per sostenere l’agricoltura”.

Il contributo europeo si sviluppa su due pilastri: da una parte le politiche che incidono sul mercato (come i pagamenti diretti agli agricoltori che sono stati slegati dalla produzione, “disaccoppiati”, e fissati su criteri di “storicità” della produzione insieme altri interventi di “accompagnamento”), dall’altra i piani di sviluppo rurale che occupano una fetta minore (si stima il 10 per cento) e devono essere co-finanziati dalle istituzioni dei Paesi membri.

In totale, le risorse amministrate dal ministero dell’Agricoltura ammontano ogni anno a circa 7,5 miliardi di euro: per le politiche agricole mette in bilancio circa 1,4 miliardi di euro, mentre canalizza i 3,5 miliardi della Pac. Con i piani di sviluppo rurali, gestiti insieme e co-finanziati dalle Regioni, ha stanziato 1,3 miliardi di euro all’anno dal 2007 al 2013. Sono così tanti soldi che si fatica a spenderli tutti, e finisce che l’Unione Europea chieda la restituzione dei fondi non erogati: dopo le polemiche dei mesi scorsi, quando rimaneva nelle tasche delle Regioni circa 1 miliardo di euro non spesi, c’è stata un’accelerazione che ha portato a 600 milioni di nuove assegnazioni. Fino a poche settimane fa rimanevano ancora “in cassa” 342 milioni di euro, ancora non erogati e quindi -secondo il ministro Galan- a rischio restituzione. L’Italia è stata storicamente uno dei Paesi meno “efficienti” in questo senso: dal 1999 al 2009 ha dovuto rimborsare all’Ue 1 miliardo e 352 milioni di euro. Secondo la relazione della Corte dei Conti, solo nel 2008 le aziende agricole italiane hanno comunque ricevuto 5 miliardi di euro di finanziamenti. La quota più consistente finisce in Emilia Romagna (900 milioni di euro), poi Lombardia (656), Puglia (544), Veneto (512) e Lazio (423). Un “tesoretto” che ha permesso di tenere in piedi una parte dell’agricoltura italiana, anche se per moltissime piccole aziende i fondi europei -con la burocrazia che implicano- sono una chimera.

La Pac, però, è a rischio. Nei mesi scorsi è iniziato l’ennesimo processo di revisione della Politica agricola comunitaria, che nel corso della sua pluridecennale storia ha già visto numerose riforme, per prevedere l’entrata in campo di altri Paesi, dell’Europa a 27 che ha inglobato diverse potenze agricole dell’Est. Le diplomazie, e le lobby, sono al lavoro, e il processo di revisione è in fase di svolgimento. Lo scorso 17 novembre il commissario europeo all’Agricoltura, il rumeno Dacian Ciolos, ha presentato le nuove linee guida che confermano la struttura a due pilastri, anche se riguardo al tema dei pagamenti diretti è stata annunciata l’esigenza di una loro equa redistribuzione sulla base di criteri economici e ambientali da individuare successivamente. La Commissione ha indicato alcune opzioni politiche su cui i Paesi membri, nel complesso cammino di riforma, dovranno esprimersi e decidere. Le opzioni vanno dal mantenimento dello status quo, pur con una ripartizione più equilibrata delle quote, all’abolizione graduale dei pagamenti diretti e degli interventi di regolazione dei mercati, con il sostegno allo sviluppo rurale più incentrato su criteri ambientali.

Una partita complessa su cui si giocano gli equilibri dell’Unione Europea. La posizione del governo italiano, fino ad oggi, è stata quella di sostenere che gli aiuti giungano sulla base del valore della produzione. Altri Paesi, in particolare la Polonia, vorrebbero invece che fossero dati in proporzione alle superfici coltivate. A conti fatti il nuovo corso potrebbe costare all’agricoltura del Belpaese 1,5 miliardi di euro all’anno, portando i “fondi Pac” da 4,3 a 2,9 miliardi di euro. Il futuro dipende così dalla capacità negoziale del governo, ma anche da come gli agricoltori sapranno reggere il colpo: secondo uno studio del Lei, un istituto olandese leader nella ricerca sui temi agricoli, l’Italia sarà comunque meno colpita di altri Paesi dalla riduzione degli aiuti. L’agricoltura italiana dipende meno dalla Pac ed è più legata alla multifunzionalità.

 

Cinque azioni per cambiare rotta

Mariagrazia Mammuccini dirige l’Arsia, l’Agenzia della Regione Toscana per lo sviluppo e l’innovazione nel settore agricolo e forestale, e dice le cose come stanno, senza esitazioni: “L’agricoltura rischia il collasso”.

La sua è una provocazione?
I dati del settore sono tutti negativi, non c’è ambito o area geografica del Paese che si salvi. È una situazione che ha caratteristiche da emergenza. Prenderne atto e trovare le strategie per governarla non significa risolvere il problema da domani, ma porre le premesse per un cambiamento di rotta. Viceversa, se in questa fase non c’è un governo della situazione si rischia di perdere la maggior parte delle aziende agricole. L’agricoltura ha bisogno di trovare una propria dimensione produttiva, che è diversa da quella di altri settori. Il dato palese è che chi lavora ricercando una maggiore sostenibilità ambientale produce risultati economici. Invece le risorse pubbliche vanno a vantaggio dell’‘agricoltura che non ha futuro’, meccanizzata e con un forte ricorso a fertilizzanti o prodotti chimici di sintesi. Proseguire su questa strada significa consegnare l’agricoltura in mano all’ignoto, e progressivamente alle banche, con il sistema finanziario che si approprierà anche di questo settore.

Quali sono i fattori che incidono di più sulla crisi?
Per le aziende agricole i fattori che incidono di più sono gli squilibri dentro la filiera. Solo una minima parte del prezzo pagato dal consumatore va al produttore. Per questo il sistema deve essere riequilibrato. Il prodotto non può girare il mondo continuamente. Dobbiamo portare la produzione e il consumo a livello locale, e le possibilità ci sono soprattutto per i prodotti freschi. Significa riaprire il rapporto fra città e campagna, fra produzione e consumo. Non si può pensare che le aziende agricole vendano tutte solo sui mercati locali, ma devono riacquistare centralità.

Questo nonostante gli aiuti della Pac.
Non si può affermare che le politiche agricole siano sempre state negative. Sicuramente anche quelle comunitarie hanno sostenuto in maniera importante le aziende agricole e contribuito alla loro tenuta sul territorio. Ma ormai le contraddizioni di un’agricoltura intensiva e basata sul petrolio sono tali che è colpevole non prenderne atto. In più gli altri fattori che sostenvano le aziende sul territorio sono venute meno.

Le grandi aziende specializzate con alti costi e più dipendenza da fattori esterni soffrono di più. È un segnale che dovrebbe parlare chiaro…
Quando hai una sola produzione specializzata, prendiamo gli esempi della viticoltura, del latte o delle olive, se emerge un problema di qualsiasi tipo, l’azienda si trova alle strette. È difficile a quel punto cambiare produzione. L’agricoltura non potrà che essere multifunzionale, e in questo senso deve giocarsi in maniera alternativa rispetto al passato. Multifunzionalità significa trovare nuove forme: l’agricoltura sociale, l’agro-energia, l’agriturismo solo per fare qualche esempio. In Toscana gli agriturismi hanno salvato più aziende di qualsiasi intervento dell’Unione Europea. Chi ha saputo giocarsi questa carta ha trovato situazioni migliori. Le aziende che hanno diversificato la produzione stanno reggendo meglio.

Come riequilibrare il ruolo dell’agricoltura nella filiera?
Questo modello economico non ha più i requisiti per reggere, e anche anche in un quadro di produzione consistente gli agricoltori si devono organizzare in modo alternativo per avere più forza nella filiera, cercando e “usando” sempre il rapporto del consumatore. Questo è possibile scegliendo la strada della trasparenza, rendendo evidente qualità e impatto ambientale della propria attività. Ci vogliono forme innovative di organizzazione: la concentrazione della produzione esiste, ma non sta portando a grandi vantaggi perché la filiera si organizza cercando produzioni a minor costo, con una materia prima che viene da altre parti del mondo grazie alla facilità di trasporto. Nessuna produzione italiana riuscirà a competere con altri Paesi dove i costi sono inferiori per cui il “Made in Italy” rischia di diventare solo trasformazione alimentare e distribuzione.

Quali azioni sono da fare subito, per invertire la rotta?
Occorre promuovere la multifunzionalità dell’agricoltura per rafforzare la competitività dell’impresa agricola e l’azienda familiare, lanciando un piano straordinario a sostegno della diversificazione e dell’occupazione.
Deve essere innovata l’organizzazione della filiera agro-alimentare e il sistema di regole relative al cibo, per avvicinare agricoltori e cittadini. La multifunzionalità poi deve essere allargata: le funzioni dell’agricoltura sono vitali per la ricostituzione e la tutela delle risorse naturali. Il cambiamento dell’agricoltura necessita di un nuovo sistema di conoscenze che sia fruibile a tutti. Infine due aspetti centrali: il ricambio generazionale e la possibilità di accesso alla terra.

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