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Diritti / Intervista

“Il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi negato dall’occupazione di Israele”

© Ash Hayes - Unsplash

A sei mesi dall’inizio dell’incarico di Relatrice speciale dell’Onu sui diritti umani nei Territori palestinesi occupati, siamo tornati a intervistare Francesca Albanese. Come si è mossa, il suo primo Report all’Assemblea generale e la necessità di cambiare paradigma verso un “dominio esterno di natura coloniale, basato sullo sfruttamento”

A sei mesi dall’inizio del mandato di Francesca Albanese come Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, e dalla prima intervista che ha rilasciato ad Altreconomia, suscitando anche attacchi e falsificazioni, siamo tornati a intervistarla.

Relatrice Albanese, qual è bilancio di questi primi mesi? È soddisfatta?
FA Vorrei meno violenza nella Palestina occupata e meno violazioni dei diritti umani e invece assistiamo a un continuo aggravarsi della situazione. È sempre più difficile proteggere i palestinesi, ma anche gli israeliani, dal regime di apartheid messo in pratica da Israele, perché, come dico spesso, sono due i popoli che pagano in questo contesto, anche se con responsabilità e sofferenza profondamente diverse. Mi rendo sempre più conto di quanto il vero intento di Israele attraverso l’occupazione sia quello di appropriarsi di terra e altre risorse, per rimanervi, ed è incredibile che questa illegalità venga tollerata. Sono soddisfatta nel constatare una presa di coscienza, seppur lenta: tanta gente è ancora disponibile a credere nel diritto. Subisco attacchi sempre più feroci, ma questo è il segno -come per molti altri prima e assieme a me- che sto andando nella direzione giusta.

Che cosa ha fatto?
FA Ho partecipato a decine di dibattiti pubblici, rilasciato altrettante interviste, scritto decine di lettere, mandato appelli a Israele su casi urgenti e scritto il mio primo rapporto. Diciamo che mi sono fatta un po’ le ossa e che ho le idee più chiare su come muovermi e con chi lavorare. Sono particolarmente lieta di aver espanso la mia rete di contatti in Israele, tra accademici e organizzazioni della società civile meno note e con esponenti delle comunità ebraiche in Europa e Nord-America. È chiaro che è fallace parlare di conflitto, si tratta di una struttura coloniale che grava su due popoli, che corrode e corrompe entrambi anche se, ripeto, i ruoli sono criticamente e inesorabilmente distinti. Uno è in posizione di assoluto predominio, l’altro è quasi completamente soggiogato.

E con la comunità ebraica italiana ha rapporti?
FA Non ho ancora avuto modo di intessere rapporti con esponenti della comunità ebraica in Italia, anche se sono in contatto con accademici italiani di religione ebraica. Al di là delle diverse visioni o letture politiche, sento che molti condannano il trattamento che lo Stato di Israele riserva ai palestinesi.

Che atteggiamento ha riscontrato nella politica italiana verso la questione? E dei media italiani?
FA In Italia, rispetto ad altri Stati europei o agli Stati Uniti, mi sembra che la capacità di avere un dibattito politico serio ed informato sulla questione Israele-Palestina sia sparita del tutto. Si ragiona d’istinto, sulla scia di convinzioni o connivenze politiche, spesso sulla base di argomenti datati e gravidi di preconcetto (e anche di un certo razzismo). La polarizzazione del dibattito è persino più acuta che negli Stati Uniti, che non saranno il Paese del cambiamento in materia, ma almeno presentano voci alternative, spazio per il dibattito, e prese di coscienza crescenti, soprattutto tra le nuove generazioni di religione ebraica.

Perché la “sinistra italiana” ha abbandonato la causa palestinese, secondo lei?
FA Probabilmente perché la questione dell’autodeterminazione palestinese -cioè del diritto del popolo palestinese a esistere come popolo- ha smesso di essere sentita come una questione “di sinistra”, improntata alla giustizia e al rispetto del diritto (a dispetto della prevaricazione). Il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese fino a circa trenta anni fa era una questione bipartisan, cioè sostenuta dalla destra moderata fino alla sinistra. Poi è invalso il discorso, ideologico e inaccurato, che gli Accordi di Oslo (i Trattati di pace 1993-1995, ndr) abbiano offerto ai palestinesi la possibilità di realizzare l’autodeterminazione e loro non l’abbiano saputa cogliere. La verità è che Oslo non ha mai puntato al pieno diritto di autodeterminazione, magari all’autonomia, ma anche quella in forma contingentata e cautelare.

Venendo al rapporto che ha appena scritto in qualità di Relatrice speciale: l’accoglienza quale è stata a livello internazionale e italiano?
FA A livello internazionale c’è stata una risposta molto forte. Dopo la presentazione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, molti Stati si sono mostrati interessati al mio discorso e ho ricevuto richieste di commenti da agenzie stampa di vari Paesi. Mi ha molto colpito la reazione americana, anche di elementi abbastanza conservatori: nei dibattiti, mi hanno posto domande logiche e meno logiche, il che comunque rivela un’apertura al dibattito. A livello italiano c’è stata molta risonanza nel mondo delle Ong e di alcune testate (le rarissime che seguono con rigore gli affari esteri e Israele-Palestina in particolare), per il resto non ho notato nessun interesse, né della classe politica né degli organi di comunicazione.

Nel rapporto si è concentrata sul diritto all’autodeterminazione, che viene letto quasi in contrasto alla più recente narrativa sull’apartheid. Perché?
FA Non direi si tratti di contrasto ma di una relazione complementare. È vero che Israele attua un regime di apartheid, cioè un sistema discriminatorio istituzionalizzato a danno dei palestinesi. Parlare di apartheid è corretto e necessario ma non è sufficiente per capire, spiegare e risolvere la questione. L’apartheid spiega la disuguaglianza, non l’intento coloniale, che è di dominare attraverso sfollamento e sottomissione della popolazione palestinese locale e acquisizione e controllo delle sue risorse, il tutto portato avanti “depalestinizzando” il territorio occupato: privandolo, cioè, della sua identità politico-culturale palestinese a vantaggio dei coloni israeliani. Dire che serve superare l’apartheid significa saltare una tappa del diritto internazionale. L’autodeterminazione si deve risolvere in uno Stato libero: lo Stato esiste ma è tenuto ostaggio dall’occupazione militare più lunga che la storia contemporanea ricordi. Finché non si risolve la questione del dominio esterno (e di natura coloniale, cioè incentrato sullo sfruttamento), non può esserci autodeterminazione.

Il diritto all’autodeterminazione implica quello alla resistenza, scrive. Perché non sembra valere per i palestinesi?
FA Perché con gli accordi di Oslo i palestinesi hanno rinunciato alla resistenza armata che è propria dei movimenti nazionali di liberazione, nella prospettiva di avere uno Stato proprio. Ma se i diritti fondamentali restano irrealizzati, se vengono violati costantemente, con impunità, se la comunità internazionale -che dovrebbe garantirne il rispetto- non lo fa, è chiaro che la tendenza del popolo soggiogato sarà sempre quella di riprendersi in mano le proprie sorti e ribellarsi. Una volta rinunciato alla resistenza armata, i palestinesi hanno provato altre forme di resistenza, tutte non violente: proteste, boicottaggio, appelli alla solidarietà internazionale, richiesta dell’applicazione delle norme internazionali vigenti, ma niente è stato efficace. Questo non significa che io giustifichi la violenza, anzi, auspico soluzioni pacifiche, cioè l’applicazione del diritto internazionale. Ma il diritto internazionale ha vera forza finché c’è la disponibilità degli Stati a farlo applicare.

Chiede un cambio di paradigma. Cioè?
FA Ci sono alcuni elementi ricorrenti nell’affrontare la questione che sono fallaci. Innanzi tutto, come ho detto, concepirla come un conflitto, con equivalenti interessi, poteri e mezzi è fuorviante. Quella in atto non è una guerra tra due popoli o tra due Stati ma una relazione di forza tra un popolo colonizzatore e uno colonizzato. La soluzione politica, svincolata da ciò che prescrive il diritto internazionale, è ingannevole, perché un negoziato non può risolvere una situazione così palesemente iniqua. Storicamente il colonialismo non si è mai risolto attraverso un processo negoziale. In secondo luogo, si tendono a dare risposte di tipo umanitario, attraverso una politica di aiuti in risposta a continue emergenze, dimenticando o perdendo di vista le cause, come se non ci fosse alternativa. E invece c’è: rispettare il diritto internazionale, come prevede la Carta delle Nazioni Unite, attuando misure diplomatiche, economiche, commerciali e politiche nei confronti di chi non lo rispetta.
Un altro limite, soprattutto con l’avvento al potere di Donald Trump negli Stati Uniti, è stato pensare alla prosperità economica dei palestinesi come la soluzione, senza considerare minimamente i diritti, né le legittime aspettative di un popolo. I palestinesi vogliono essere liberi. La metafora di Davide contro Golia vale in questo caso, ma qui i Golia sono molti, perché c’è un supporto attivo di molti Stati nei confronti del governo israeliano nonostante i continui abusi e soprusi nei confronti palestinesi.

Chiede la decolonizzazione. Concretamente che cosa dovrebbe fare Israele?
FA Il colonialismo è talmente fuori da ciò che è permesso nel diritto internazionale che l’autodeterminazione è di natura perentoria, la sua realizzazione cioè è un obbligo per gli Stati e la comunità internazionale tutta. Ciò significa innanzitutto che Israele, da parte sua, deve smantellare l’impianto militare in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e attorno a Gaza. Deve interrompere il controllo civile e militare sui palestinesi. E realizzare risarcimenti collettivi e individuali. Nel frattempo, vige l’obbligo di ogni Stato di non riconoscere come legittima la continua occupazione militare del territorio palestinese che vige dal 1967, e trattare Israele come uno Stato che è palesemente in violazione dei diritti fondamentali di un altro popolo. Questo significa, per esempio, che vadano interrotte le relazioni commerciali con e nelle colonie, non va prestato aiuto o cooperazione militari che possano aggravare l’occupazione. Gli Stati sono obbligati a cambiare i termini delle relazioni con lo Stato di Israele, finché non cambi le suddette politiche, non con il popolo.

Non trova sia utopistico?
FA Credo sia necessario. L’utopia in questo momento rimane per una serie di fattori ma la Relatrice sui diritti umani nel territorio palestinese occupato non può concedersi il “lusso” del disfattismo. La società civile attorno alla questione palestinese si sta riorganizzando e la presentazione del rapporto mi dà conferma che le coscienze sono pronte ad un impegno più significativo.

Lo presenterà in Italia?
FA Certo, se e quando sarò invitata a farlo. Devo dire che mi turba il fatto che ci sia una Relatrice speciale italiana e non venga mai consultata per un’intervista.

L’ha mandato a Fassino?
FA No. Dovrei?

Dopo l’episodio in Commissione Esteri e i vostri relativi interventi pubblicati su il manifesto, ci sono stati altri sviluppi?
FA Nell’ultima seduta della Commissione sono state messe a verbale le scuse dell’onorevole Fassino.

Quindi si è scusato?
FA È agli atti, quindi immagino di sì. Mi ha mandato una lettera prima della pubblicazione del suo articolo, in cui sembrava rammaricato, ma il giorno dopo ha pubblicato uno scritto in cui riaffermava gli stessi postulati infondati ma questa volta senza attribuire responsabilità a me.

Nella precedente intervista dichiarò di voler portare la questione “fuori dalle sedi istituzionali”, sta riuscendo?
FA Direi di sì. Sto facendo fin dalle prime ore incontri con la società civile, il mondo accademico, le chiese, le comunità ebraiche e palestinesi in vari Paesi. Comunico molto attraverso i social, e questo rende il messaggio più efficace. Mi ha sorpreso scoprire che i video della presentazione del rapporto all’Assemblea generale sono arrivati anche su Tik Tok, che personalmente non uso.

I risultati elettorali israeliani non fanno ben sperare per i palestinesi. Quali scenari prevede?
FA Questo governo grida violenza e mi preoccupa molto che sia stato sdoganato l’incitamento all’odio razziale: si stringerà il cappio dell’oppressione attorno ai palestinesi. Ciò che mi rincuora è vedere che c’è una parte della società israeliana non allineata: sono pochi, ma si rendono sempre più conto che i palestinesi vanno sostenuti. La mia forza viene anche da quest’umanità.

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