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Il dilemma del commercio

In un momento di crisi la priorità restano i produttori del Sud: parola di Paul Myers, a capo dell’organizzazione che rappresenta il fair trade nel mondo “Alcune organizzazioni del commercio equo vivranno delle difficoltà, perché non sono preparate a tempi…

Tratto da Altreconomia 102 — Febbraio 2009

In un momento di crisi la priorità restano i produttori del Sud: parola di Paul Myers, a capo dell’organizzazione che rappresenta il fair trade nel mondo

“Alcune organizzazioni del commercio equo vivranno delle difficoltà, perché non sono preparate a tempi come questi. Se il fatturato scenderà, caleranno anche gli acquisti e quindi molti produttori riceveranno meno ordini o se non altro gli ordini non aumenteranno”. Paul Myers è il presidente dell’International Fair Trade Association (Ifat), l’organizzazione mondiale del commercio equo e solidale. Lo abbiamo incontrato a Kolkata, in India, raccogliendo la sua analisi  sul possibile impatto della crisi economica globale sul commercio equo. “Penso che il prossimo anno e mezzo sarà difficile per tutto il mercato -ha spiegato-. I fatturati saranno più bassi, ci saranno meno clienti e compreranno cose di minor valore. In altre parole i consumatori saranno cauti, con delle eccezioni visto che non tutti saranno colpiti in egual misura.
Ma non dobbiamo usare l’attuale crisi come una scusa. Credo che oggi il messaggio del commercio equo debba essere: se compri un regalo, della cioccolata, del caffè o qualcos’altro, allora rifletti attentamente su dove lo comprerai. Se compri un prodotto equo oltre a fare un regalo a tua madre o a tua sorella farai anche un regalo a un produttore, continuando a garantire che riceverà degli ordini. I produttori sono ancor più vulnerabili perché non hanno le risorse e le scelte che noi tutti abbiamo quando siamo in difficoltà”.
I consumatori cauti sono attenti a ciò che comprano, e quindi anche più coscienti.
È giustissimo. Vogliamo consumatori coscienti e cauti. Il nostro lavoro è quello di ricordare alla gente quanto questo sia importante. È probabilmente un momento nel quale è necessario spendere di più anziché meno, investire soldi per rendere il consumatore ancor più cosciente del perché deve comprare un prodotto equo e solidale. Le attese dei piccoli produttori svantaggiati sono più alte di sempre e noi non possiamo dimenticarcelo.
Il commercio equo deve incominciare ad usare gli strumenti del mercato tradizionale?
A mio avviso sì. In questo periodo, in aggiunta ai nostri soliti strumenti alternativi, dobbiamo usare strumenti che sono stati testati e che funzionano. Questo perché non è solo il mercato alternativo che vogliamo raggiungere ma anche il consumatore medio che è nel mercato tradizionale.
Siamo sicuri che tutti, all’interno del movimento del commercio equo, vogliano questo?
Anche in questo caso, la mia risposta è sì. Ed è sì perché, per me, c’è solo una domanda, o meglio la più importante: “Che cos’è nell’interesse del produttore?”. Al produttore interessano altri ordini. Non dobbiamo lasciarci confondere dai nostri programmi, dimenticandoci questo proposito. Che è di dare un altro ordine al produttore e ovviamente di farlo con integrità ed equamente, continuando sempre a lavorare su tutte le altre questioni.
In diverse occasioni e in tutto il mondo ho chiesto ai produttori se a loro importasse a quale prezzo noi importatori del commercio equo vendessimo i loro prodotti. Hanno risposto “No, perché dovrebbe?”.
Questo significa che dobbiamo essere attenti che i nostri prezzi siano ragionevoli, perché il nostro obiettivo non è quello ci massimizzare il profitto, come qualsiasi azienda sul mercato, ma di massimizzare il numero di pezzi che vendiamo.
Da un lato c’è lo scopo e l’interesse del produttore, quello di ricevere un altro ordine e di essere pagato e trattato equamente; dall’altro c’è l’interesse del consumatore, che, parlando per ora solo di artigianato, è di comprare un prodotto di qualità, ad un prezzo ragionevole, con un servizio ragionevole. Se questo è vero, a prescindere dal prodotto che si vuole comprare, il valore aggiunto è che il prodotto è stato comprato seguendo i principi del commercio equo. Forse involontariamente vendiamo anche un’ideologia. Io credo che non dovremmo vendere il commercio equo,  ma innanzitutto un prodotto di qualità. Quindi possiamo dire al consumatore: tu compri questo bellissimo vaso, fatto a mano, con questo bellissimi colori, ad un prezzo ragionevole e io, che lavoro in questa bottega, posso dirti che so da dove viene, posso dirti di che materiale è fatto, e chi lo ha fatto, probabilmente non il nome della persona, ma di sicuro che è qualcuno di questa o quella organizzazione che ha a cuore il futuro delle persone svantaggiate e che lavorano per dar loro la possibilità di produrre questo oggetto meraviglioso che è disponibile per te attraverso questo negozio. Il commercio equo è fatto di relazioni, parla di come lavoriamo con le persone nella filiera, inclusi gli stessi artigiani, e come trattiamo te in quanto consumatore.
La mia responsabilità nel trattare le persone e le cose in maniera equa non è solo nei confronti dei produttori ma anche nei tuoi in quanto consumatore. Ma “che cosa” vendiamo è davvero il punto critico: è il bel prodotto, il bel regalo che vendiamo. Se vogliamo vendere solo il commercio equo diventiamo un’organizzazione educativa. Nulla di sbagliato in questo, anzi è una cosa molto buona, ma il commercio equo è composto da due parti: dobbiamo fare commercio e farlo in maniera equa e solidale. Se commerciamo e non siamo equi c’è un problema, se siamo solo equi e parliamo di solidarietà e non commerciamo potrebbe essere interessante, ma è per lo più inutile.
Le organizzazioni di fair trade procurano delle entrate economiche decisive per i piccoli artigiani e contadini svantaggiati. Ma c’è di più: non siamo solo delle organizzazioni commerciali, quindi non promuoviamo solo il commercio, anche se è assolutamente essenziale, ma promuoviamo anche un modo di fare commercio che è onesto, trasparente e fatto con integrità. Ci opponiamo al potente che sfrutta il debole. Ci opponiamo al grande che sfrutta il piccolo. Sappiamo che sono in grado di farlo e che le regole del mercato lo consentono, ma non è un bene e non è salutare.
   
L’INTERVENTO
In arrivo un marchio controverso
Sul futuro del commercio equo abbiamo raccolto il punto di vista di Giorgio Dal Fiume, rappresentante italiano nel board di Ifat Europe.
Quali sono il ruolo e il peso del commercio equo italiano nell’Ifat?
Abbiamo un peso significativo: rispetto a Francia e Germania, abbiamo un maggiore impatto dovuto all’unità del commercio equo italiano, che si esprime sui macro temi attraverso documenti condivisi. In più Altromercato è la seconda organizzazione di commercio equo al mondo, e l’italiano Rudi Dalvai è stato presidente di Ifat. Tuttavia restiamo in minoranza: il peso ponderato dei produttori soci in Ifat è molto forte.
Paul Myers ha parlato delle opportunità che la crisi può dare al commercio equo.
L’opportunità c’è, senz’altro. Non so quanto la stiamo sfruttando, valorizzando ad esempio la parte relativa ai valori del  commercio equo, che oggi si rivelano vincenti almeno idealmente.
Ma la parte non commerciale continua a essere molto debole.
La linea di Ifat è di porre al centro il produttore.
È corretta: il produttore è il vero stakeholder del commercio equo. Ma fino a che punto ci può portare però questo assunto? Il punto è: dobbiamo fare tutto ciò che fa il bene del produttore, ma come coniugare questo con una riflessione sul commercio equo che dia sostenibilità all’economia alternativa? Dobbiamo avere in mente i produttori, ma anche le organizzazioni di commercio equo. Il commercio equo senza organizzazioni non è lo stesso.
Se facciamo il bene del produttore e basta si può immaginare un mondo senza organizzazioni di commercio equo. Ovvero: tutti possono vendere prodotti del commercio equo. S rischia la sparizione di tutti quei soggetti che oggi si occupano di fare divulgazione, denuncia, formazione, che aggiungano al prodotto tante altre cose. Senza coniugare il bisogno del produttore con una lettura del commercio internazionale rischiamo di lavorare per un piccola aristocrazia del Sud. Se dovessimo fare il bene dei produttori dovremmo smontare la Wto ad esempio. Non saranno le esportazioni a salvare il Sud.
Ifat si chiamerà World Fair Trade Organization. Tra i cambiamenti di questo periodo, c’è quello di un nuovo marchio internazionale per i prodotti del commercio equo.
Il cambio di nome verrò lanciato il 9 maggio, giornata mondiale del commercio equo. Quella di un marchio Ifat/Wfto è invece una proposta che deve essere approvata. Da organizzazione di rappresentanza, supporto e promozione del commercio equo nel mondo, Ifat rischia di trasformarsi in un ente di certificazione, funzionale a far acquisire quote di mercato.
In Italia viviamo come un grave problema che Ifat cambi la sua identità, perché significa snaturare un ruolo di cui c’è molto bisogno. Poi chiunque rispetterà i criteri Ifat, che sono molto stringenti, potrà usare il marchio sui suoi prodotti. Non vedremo mai un caffè Nestlé marchiato Ifat, però Nestlé potrebbe fondare una sottomarca e farsi certificare i prodotti come equi e solidali. Ma l’obiettivo che c’è dietro questo processo è che i produttori di artigianato possano ad esempio vendere direttamente a Ikea. È una questione non semplice: i produttori hanno tutto il diritto di vendere a Ikea, ma se il marchio sul prodotto venduto all’iper e in bottega è lo stesso, il consumatore come può cogliere la differenza?
Da dove è arrivata questa proposta?
Dal board di Ifat, su pressione dei produttori asiatici, che lavorano per lo più sull’artigianato. Il problema è reale: le vendite dell’artigianato sono il 5% del commercio equo mondiale, e sono stagnanti o in calo. Gli asiatici hanno un vero problema: quindi è importante che non passi l’idea che qualcuno sta “svendendo” il commercio equo. Nessuno di noi lo pensa. Il board di Ifat e i produttori asiatici pongono un problema vero, e nessuno di noi confonde il bisogno con la proposta. Serve però una sintesi tra il loro bisogno e il non provocare danni alle organizzazioni di commercio equo. Questo processo si chiuderà a metà maggio, in Nepal, con l’assemblea annuale”.

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