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Economia / Opinioni

Il “debito verde” per sostenere la transizione ecologica, oltre l’emergenza

Se non intende essere solo un mero strumento di supporto al pur importante “Recovery Fund”, il dicastero ad hoc dovrà disporre di risorse che andranno necessariamente trovate attraverso una fiscalità ecologica garantita da titoli pubblici collocati sfruttando i bassissimi tassi di interesse. L’analisi del prof. Alessandro Volpi

© Wengang Zhai - Unsplash

L’annunciata creazione di un ministero della Transizione ecologica suggerisce alcune considerazioni specifiche che non intendono affrontare la questione complessa di che cosa si intenda con tale definizione. La prima considerazione riguarda le risorse disponibili per un ministero simile, qualora si intendesse davvero affidare a un unico centro di spesa le diverse voci riconducibili appunto alla “transizione ecologica”. Nella bozza italiana del Recovery Plan sono previsti poco meno di 70 miliardi di euro per la transizione ecologica, di cui circa 50 destinati alle due voci della transizione energetica e della riqualificazione degli edifici. 

Lo stesso ministero della Transizione potrebbe poi fare ricorso ad ulteriori risorse tratte dal Programma Life 2021-2027, dai “Fondi Batterie” e da altre linee. Non sembrerebbe dunque esistere un problema finanziario. In realtà non è così.
I fondi del Recovery Plan, infatti, dovranno essere spesi per due terzi entro il 2022 e per un terzo entro il 2023. Sono richiesti tempi strettissimi, quindi, che peraltro cozzano con i tradizionali tempi di spesa italiani, decisamente più lunghi come dimostrano i soli 28 miliardi di euro spesi dei 72 disponibili per il nostro Paese nella programmazione dell’Unione europea per il periodo 2014-2020. Inoltre, come accennato, la gran parte delle risorse è indirizzata all’efficientamento energetico degli immobili, cui si aggiungono opere di carattere infrastrutturale, con spazi decisamente più limitati ai processi di economia circolare e a più articolate dinamiche di natura immateriale. 

In altre parole, i tempi stretti entro cui completare la spesa hanno indotto a recuperare progetti già in essere e a concentrarsi su iniziative di breve respiro: manca invece il finanziamento per una trasformazione più durevole, che necessita di una prospettiva più lunga. In questo senso, il ministero della Transizione, se non intende essere un mero strumento di supporto al solo, pur importante, utilizzo del “Recovery Fund”, dovrà disporre, in maniera continuativa, di risorse che andranno necessariamente trovate attraverso una fiscalità ecologica e mediante la creazione di un debito “verde”, garantito da titoli pubblici collocati sfruttando i bassissimi tassi di interesse. Molto utile potrebbe essere anche l’azione della Cassa depositi e prestiti che sarebbe nelle condizioni di raccogliere il risparmio privato orientandolo a sostegno della stessa economia circolare. In estrema sintesi, la transizione ecologica non può limitarsi a quanto proviene da questa prima fase “straordinaria” di sostegno europeo, che presenta non poche difficoltà, ma necessita di una struttura finanziaria e fiscale in grado di sorreggere un cambiamento reale di fase economica e culturale. 

La seconda considerazione ha a che fare con le competenze. Certamente un ministero della Transizione ecologica può essere utile per avviare la necessaria dimensione nazionale delle politiche in tale direzione, ma la traduzione concreta di questa politica d’insieme ha bisogno di molteplici declinazioni particolari che fanno riferimento a enti locali e a realtà territoriali, dalla gestione dei rifiuti, ai gestori idrici, alla mobilità, all’urbanistica e all’edilizia. Accentrare le decisioni e la spesa non deve significare una mera attività di sostituzione del complesso delle reti istituzionali e degli operatori locali perché un nuovo centralismo equivarrebbe ad una deresponsabilizzazione, del tutto in contrasto con la cultura stessa della Transizione ecologica, composta da condotte e pratiche di comunità. Il ministero della Transizione ecologica potrebbe adoperarsi, piuttosto, per rendere più organici i tanti soggetti operanti in ambito ambientale e, soprattutto, per avviare la ripubblicizzazione di alcuni monopoli naturali, a cominciare dalle risorse idriche. Sarebbe in tale ottica un efficace mezzo per ridefinire, in termini istituzionali, i rapporti fra centro e territori e, al contempo, per qualificare meglio le relazione fra soggetti pubblici e mercato, in una dimensione che, finalmente, prescinde dal “pregiudizio” capitalistico. Ma questo richiederebbe che il gabinetto Draghi fosse un governo di sinistra…

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento

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