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Il conflitto in Palestina visto da Beirut

Dal campo profughi di Sabra e Chatila l’immagine del medioriente che sta esplodendo e di uno Stato, il Libano, che rischia di essere schiacciato dalla crisi finanziaria globale Non ero mai stato nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila….

Tratto da Altreconomia 102 — Febbraio 2009

Dal campo profughi di Sabra e Chatila l’immagine del medioriente che sta esplodendo e di uno Stato, il Libano, che rischia di essere schiacciato dalla crisi finanziaria globale

Non ero mai stato nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila. Il nome tragico ricorda la strage organizzata da Sharon  il 16 settembre del 1982. A ricordare quel dramma c’è un spiazzo, circondato da un muro, con dentro alcuni cartelli con immagini sbiadite e una corona di fiori posta al centro di una grande pietra.
Si entra da un cancello che un custode che sembra un’ombra ti apre senza commentare.  La donna palestinese che ci accompagna ci fa notare che il prato che stiamo calpestando è una fossa comune di più di 1.300 persone, e che i parenti delle vittime, quando vengono in questo luogo, si fermano a pochi metri dal cancello. Camminando per le strade maleodoranti di Sabra e Chatila, che ormai fanno parte integrante della città di Beirut , tocchi con mano lo stato di degrado umano e ambientale in cui è stata ridotta questa popolazione di 30.000 unità. Persone cui è stata tolta ogni dignità: non hanno la cittadinanza libanese, non possono acquistare una casa o costruirne una nuova, non possono lavorare legalmente. Tre generazioni, dal 1948, sono passate attraverso lo squallore, la morte civile e quella fisica, hanno subito stragi e umiliazioni di ogni tipo, sono ancora lì tra case fatiscenti, spazzatura, con l’acqua e l’energia con il contagocce. Senza futuro.  Ed è questa la condizione dei 400.000 palestinesi profughi in Libano. Così come degli altri milioni di palestinesi che stanno nei campi profughi degli altri Paesi arabi confinanti (Giordania, Siria, Egitto). Una condizione unica al mondo. Non si registrano altri casi di campi profughi che durino in questo modo da più di sessanta anni. 
Se passi solo qualche ora in uno di questi campi profughi non ti puoi stupire se vedi un ragazzo su una bici che raccoglie fondi per Hamas, o gente poverissima che si mette in fila per donare la sua banconota per la resistenza palestinese. Non ti puoi più stupire se per le strade rognose di Sabra e Chatila trovi affissi su muri scalcinati le foto, fresche di stampa, di Saddam, il dittatore di Bagdad, che in occidente abbiamo già dimenticato e qui è ancora vivo e vegeto nel ricordo di un popolo disperato, usato e strumentalizzato da tutti (a cominciare dai governi dei Paesi arabi), buttato in un deserto di desolazione, un lager, un ghetto di dolore che continuiamo a chiamare “campo profughi”.  
Situazioni senza vie d’uscite che sono bombe a orologeria.  E il tempo per lo scoppio di questa bomba in Libano è ormai, maledettamente, molto vicino. La situazione di questo Paese sta precipitando come effetto collaterale del crollo della finanza mondiale.
Il Libano, come è noto, è stato ed è ancora oggi un paradiso fiscale per gli sceicchi e per i capitali illegali di mezzo mondo.  È un Paese che è vissuto di finanza che ha permesso a una parte della popolazione (maroniti, drusi, etc.) di mantenere uno stile di vita occidentale. La bilancia commerciale di questo Paese fa registrare un pesante deficit -per il 2008 si stima pari a quasi il 40% del Pil-; di contro la bilancia dei pagamenti ha fatto registrare l’ultimo anno ancora un attivo di quasi tre miliardi di dollari. In sostanza, le rimesse dei libanesi che vivono all’estero, il turismo, e soprattutto il movimento dei capitali dai Paesi del Golfo ha permesso a questo Stato di mantenere un elevato tenore di vita per il ceto medio, di ricostruire grattaceli e infrastrutture dopo le tante guerre civili (cui si deve sommare l’ultima, condotta da Israele nel 2006, che ha lasciato segni pesanti sul territorio). A questo si aggiunga che il debito interno ha superato l’82% del Pil e scarse sono le possibilità di manovra del fragile governo di coalizione per contrastare la crisi incombente. Uno studio della banca d’investimenti Efg Hermes stima che quest’anno potrebbero tornare in Libano qualcosa come 100-150mila libanesi che lavorano nei Paesi petroliferi del Golfo, e che stanno per perdere il lavoro. Su quattro milioni di abitanti è una cifra enorme che va ad aggiungersi ad un tasso di disoccupazione che sfiora il 15% (escludendo la popolazione palestinese) e un tasso d’inflazione a due cifre. Una situazione insostenibile in cui i primi a farne le spese potrebbero essere proprio i palestinesi dei campi profughi , come è accaduto altre volte nella storia di questo tormentato Paese. Come accadde quella notte maledetta  quando Sharon illuminò a giorno i campi profughi e lasciò mano libera ai suoi ed ai falangisti di trucidare 3000 donne, uomini e bambini inermi. Come ha fatto  ancora oggi l’Unione Europea assistendo indifferente al massacro di centinaia di bambini a Gaza, all’uso delle bombe al fosforo bianco, alla distruzione di scuole, ospedali e centri dell’Onu.

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