Finanza / Opinioni
Il capitalismo è davvero sull’orlo della crisi di nervi

L’amministrazione Trump ha incassato colpi durissimi sui dazi -dichiarati illegittimi dal Tribunale del commercio internazionale- e sul rendimento dei titoli del debito federale -per via delle vendite da parte dei grandi fondi come BlackRock, Vanguard e State Street-. La risposta è l’isteria totale, la sindrome dell’accerchiamento, le teorie del complotto. Dove ci porteranno a sbattere? L’analisi di Alessandro Volpi
La presidenza Trump è sotto attacco. La decisione del Tribunale del commercio internazionale, una corte federale, di dichiarare illegittimi i dazi adottati dalla nuova amministrazione con ordini esecutivi perché la prerogativa di applicare tali misure spetta al Congresso, che non la può delegare, è un duro colpo alla posizione trumpiana.
Si tratta, soprattutto, di un atto che si inserisce in un contesto molto difficile per il presidente. Continua infatti lo scontro con le Big Three della finanza -BlackRock, Vanguard e State Street- che stanno vendendo titoli del debito federale, costringendo il Tesoro a rendimenti superiori al 5%, e partecipando con parsimonia alle aste, al di fuori degli interventi obbligati dal consorzio di collocamento.
Dopo le dichiarazioni di Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, il fondo più grande al mondo, sono arrivate quelle di Jamie Dimon, presidente della più grande banca del Pianeta per capitalizzazione, Jp Morgan. Entrambi hanno sostenuto che l’enormità del debito federale degli Stati Uniti è in grado di generare un cataclisma nel “mercato obbligazionario”, finendo per travolgerlo.
È chiaro che due voci di questo peso che danno per certo il tracollo statunitense per mano di Trump, stanno giocando il tutto per tutto per liquidare il presidente, tra l’altro a ridosso del voto parlamentare sul “Big Beautiful Bill”, la riforma fiscale trumpiana che intende estendere i tagli alle imposte già varati nel 2017. Una partita che dimostra l’isteria del capitalismo finanziario di cui pagano il conto, in primis, tutti quei risparmiatori che hanno creduto nella possibilità della finanza di sostituire il lavoro e la spesa pubblica.
Così, non a caso, in questa fase i credit default swap che dovrebbero proteggere contro il rischio di fallimento del debito federale degli Stati Uniti stanno costando sempre di più, a riprova del fatto che si è aperta una speculazione sulla possibilità di un default americano. Si tratta di un’ipotesi impensabile fino a qualche anno fa ma che ora, di fronte all’enormità del debito statunitense, alla debolezza del dollaro e all’estrema difficoltà con cui la Federal reserve potrebbe stampare dollari per coprire quel debito, appare meno lunare e quindi alimenta un’ondata speculativa. Questa ondata contribuirà al già ricordato forte rialzo dei tassi di interesse che il debito statunitense deve pagare per attrarre compratori e ciò implica due conseguenze.
La prima: la concorrenza del debito Usa, con il decennale che può arrivare al 5%, obbligherà i Paesi più indebitati, come l’Italia, a pagare tassi di interessi più alti, con un incremento di questa voce della spesa pubblica, a cui peraltro contribuisce la folle idea di escludere dal Patto di stabilità il debito pubblico contratto per il riarmo; un’idea sempre più coltivata da governi “socialisti”, a cui si è aggiunta una belluina Danimarca. Peraltro questa concorrenza dei tassi di interesse americani peserà sull’intero comparto delle obbligazioni, con cui si finanziano imprese e banche, che molto probabilmente scaricheranno questo costo sui loro clienti e sui consumatori.
La seconda: l’ingigantimento della spesa statunitensi per interessi renderà, come ha già dichiarato Donald Trump, ancora più necessari, per incrementare le entrate federali, i dazi che, è probabile, colpiranno in primis gli europei. Prosegue, intanto, lo scontro dell’amministrazione Trump con la Federal reserve di Jerome Powell, ferma su tassi alti e convinta, come emerge dai verbali, che le politiche di Trump porteranno dritte a una stagflazione. Contro i dazi, poi, si sono schierati vari Stati della confederazione con azioni legali proprie e il conflitto con le grandi università, a partire da Harvard, sta assumendo contorni durissimi. Persino il già citato “Big Beautiful Bill” provoca attacchi da destra perché ritenuto troppo a favore dei miliardari e non delle imprese in quanto tali, con un impatto devastante sul deficit federale.
Sul versante internazionale, inoltre, Trump non pare trovare veri interlocutori disponibili al confronto: non la Cina, forte della sua posizione produttiva e commerciale, ma neppure la Russia. Gli unici “amici” sembrano Paesi con governi “assai particolari” come l’Argentina di Javier Milei e l’Italia di Giorgia Meloni. Di fronte a un simile accerchiamento, che non lascia spazi negoziali alla versione trattante di Trump, il presidente pare avere una sola via d’uscita ed è quella di accentuare ulteriormente il suo trumpismo feroce.
Ciò significa esasperare la vena populista, presentando i tribunali, le università, l’alta finanza come l’espressione di élite di privilegiati parassiti, titolari di poteri oscuri, non generati da una elezione popolare e dunque i veri nemici interni del vero popolo americano. In politica estera, l’isolamento Usa diventa, nella narrazione trumpiana, un accerchiamento dettato dalla volontà internazionale di continuare a sfruttare la ricchezza degli americani, a cui sottrarre continue risorse e a cui chiedere un costante, costoso aiuto. Soprattutto, Trump potrà affidarsi alla funzionante teoria del complotto su cui ha costruito buona parte della sua fortuna, trasformando la guida del capitalismo globale nel principale avversario dei molteplici soggetti di quello stesso capitalismo, in nome di una celebrazione del valore assoluto della ricchezza dei “veri americani”, guidati da un capo in grado di determinare le sorti del capitalismo, svincolandolo in nome della libertà assoluta dal mercato, dagli equilibri di potere e persino dalla fiducia illuministica nella ragione: un capitalismo politico dai tratti della religione.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento. Il suo ultimo libro è “Nelle mani dei fondi” (Altreconomia, 2024)
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