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Economia / Opinioni

Il capitalismo dei ricchi non può essere il mercato

In piena pandemia lo 0,001% della popolazione mondiale ha goduto di un rush dei mercati finanziari che ha generato benefici per 3mila miliardi di dollari. La polarizzazione della ricchezza è diventata più marcata, distrutto il reddito per miliardi di persone. Sicuri che sia colpa dello Stato? L’analisi del prof. Alessandro Volpi

© Etienne Girardet - Unsplash

Il Tesoro ha aperto l’anno nuovo collocando Btp a quindici anni per 10 miliardi di euro con un rendimento lordo dello 0,99. Il dato estremamente rilevante è costituito dal fatto che le richieste hanno superato i 100 miliardi, risultando dieci volte superiori a quanto messo in collocamento. Si tratta di una domanda record che è superiore persino a quella di giugno, quando furono raggiunti i 108 miliardi per un’offerta di titoli decennali pari a 15 miliardi di euro. 

In piena pandemia, con un crollo del Pil italiano di 10 punti in pochi mesi, e con un governo in piena crisi il debito italiano è ricercatissimo e ha un costo di collocamento decisamente basso; è molto probabile che nel 2021 il debito italiano abbia un costo medio dello 0,59, inferiore quindi al tasso d’inflazione. Nel frattempo lo spread è inchiodato attorno ai 100 punti e l’euro si rafforza sul dollaro, a 1,23, e persino sul granitico yen. 

Certo, dietro tutto questo c’è la Bce, ma è evidente che in questa fase, e almeno per un discreto periodo, la paura dell’indebitamento non può essere un elemento di freno agli interventi necessari per fronteggiare la drammaticità della crisi; è bene usarlo quindi come ammortizzatore sociale e come strumento per realizzare gli investimenti strategici, la cosiddetta “spesa buona”. È meglio che le banche centrali finanzino il debito piuttosto che la bolla colossale dei bitcoin, ormai sopra i 35.000 dollari, con una capitalizzazione di 650 miliardi. 

La pandemia dimostra, con chiarezza, infatti, che bisogna distinguere tra capitalismo e mercato. Secondo i dati di Forbes, le 500 persone più ricche del mondo hanno accresciuto il loro patrimonio di 1.800 miliardi di dollari in pochissimi mesi -in pratica da febbraio a dicembre 2020- portandolo a 7.600 miliardi, pari alla somma del Pil di Francia e Germania. Alcuni di loro hanno conosciuto un balzo incredibile. Jeff Bezos ha visto crescere la propria fortuna di 70 miliardi di dollari, con un incremento del 66%, Elon Musk ha visto esplodere il suo patrimonio da 25 a 153 miliardi di dollari. Nello stesso periodo il valore in Borsa di Facebook è schizzato in alto dell’85%. 

Più in generale lo 0,001% della popolazione mondiale ha goduto di un rush dei mercati finanziari che ha generato benefici per 3mila miliardi di dollari. In estrema sintesi, nel giro di meno di un anno di pandemia la polarizzazione della ricchezza è diventata ancora più marcata. Il funzionamento del capitalismo, sia in termini produttivi sia in quelli finanziari, ha determinato, di fronte ad una crisi strutturale, la distruzione di reddito per miliardi di persone, aggiungendo 150 milioni di “poveri estremi”, e, al contempo, ha consegnato risultati straordinari ai detentori monopolistici di alcuni beni e servizi e ai possessori di grandi disponibilità finanziarie che, peraltro, hanno beneficiato a piene mani della liquidità immessa dalle Banche centrali proprio nel tentativo di arginare la crisi dilagante. È evidente che questo capitalismo non può essere il mercato, inteso come lo strumento per l’allocazione corretta, e quanto più possibile equa, delle risorse. Il mercato ha bisogno di una dimensione pubblica, di giustizia sociale, totalmente estranea al capitalismo. Sul Corriere della Sera è comparsa l’ennesima considerazione di Francesco Giavazzi che tuonava contro lo Stato in economia, esaltando il ruolo dei colossi di big pharma, campioni del capitalismo efficiente. Forse varrebbe la pena ricordare che se lo Stato investisse nella ricerca pubblica, esisterebbero più farmaci accessibili a tutti e che senza una dimensione pubblica le disuguaglianze continueranno a trionfare. Su una cosa però Giavazzi ha ragione: la politica non può avere costi esorbitanti. Poter disporre di una dimensione pubblica universale per una maggiore equità implica un ceto politico sensibile al sacrificio. In un mercato giusto non ha alcun senso che i consiglieri regionali guadagnino 15mila euro lordi al mese, altrimenti rischiamo di avere “piccoli” Jeff Bezos senza, peraltro, disporre di Amazon. 

Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento.

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