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Esteri

Il caos prossimo venturo. Intervista a Prem Shankar Jha

Una lunga stagione di disordine sociale e disequilibrio economico, assieme a nuove e pericolose forme di unilateralismo e a uno scenario di guerra permanente popolato da eserciti, di soldati o terroristi, in costante attività. E’ il mondo descritto da Prem Shankar Jha, economista e giornalista indiano, nel libro "Il caos prossimo venturo" (2007, Neri Pozza).
Un’opera monumentale che ripercorre 700 anni di storia del capitalismo il quale oggi sta fagocitando qualsiasi tipo di istituzione affermata, dal welfare state agli Stati nazionali. "La crisi finanziaria che ha distrutto l’ideologia neoliberale -afferma Jha- è il punto culminante del processo di deregolamentazione e il collasso è totale. L’unica alternativa possibile è un sistema di governo globale".

Prem Shankar Jha, cos’è il caos?



Il caos avviene quando il sistema politico ed economico internazionale improvvisamente perde la sua capacità di generare risposte equilibrate agli shock esterni. Quando il nostro corpo è malato ed ha un’infezione, reagisce combattendo contro quella malattia. Ma il caos si manifesta quando i meccanismi fra loro interconnessi di un sistema – istituzioni, leggi, regole – smettono improvvisamente di funzionare. Per questo affermo che quando il sistema si blocca non ci sono soluzioni e quelle che finora sono state trovate hanno molto spesso solo peggiorato la situazione.


Il libro si focalizza su alcuni aspetti delle cause della crisi: insicurezza nel mondo del lavoro e divario crescente fra le fasce di reddito. Sono processi irreversibili?



Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 1971 il tasso di disoccupazione in Europa si aggirava intorno all’1,8%, una percentuale irrisoria. Dalla metà degli anni ’70 in poi la disoccupazione ha continuato ad aumentare e continua tutt’oggi a paralizzare l’Europa, arrivando al 9%. Il tema della sicurezza del lavoro è centrale. In paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone il lavoro precario è in continua crescita. Ciò significa il vacillare di qualsiasi protezione sociale, della certezza della pensione, dell’assistenza sanitaria. In questo l’Europa rimane comunque in una situazione migliore rispetto a quella degli Usa e Gran Bretagna, ma solo per i retaggi del vecchio welfare. Sempre nei primi anni ’70 i salari medi in Europa erano 5,6 volte superiori a quelli degli Stati Uniti e molto di più rispetto ad altri paesi come Messico, Cina e India. Allo stesso tempo le tecnologie hanno ridotto i costi di trasporto e l’information tecnologhy ha permesso la dislocazione della produzione manufatturieria in tutto il mondo, mantenendo il controllo finanziario centralizzato. Le imprese si sono rese conto dei vantaggi della produzione delocalizzata che permetteva una spesa minima e la possibilità di un ritorno dei prodotti finiti sui mercati ricchi del nord come quello americano ed europeo. Questa è stata l’origine di tutti i problemi i cui effetti si perpetuano nel tempo anche nei paesi altamente industrializzati. Sono convinto che all’interno di questo sistema non ci siano soluzioni, perché la causa di tutto è un gioco al ribasso delle imprese transnazionali.


Le quattro crisi sistemiche in corso, in particolare quella finanziaria, significano un’accellerazione della crisi stessa oppure il capitalismo ha ancora al suo interno gli anticorpi per reagire alle crisi generate da lui stesso?



Il capitalismo non ha risposte alle crisi generate da lui stesso. La crisi finanziaria è il punto culminante del processo di deregolamentazione del capitalismo dello Stato nazione. È il frutto della rimozione delle leggi nazionali che servivano a  proteggere le economie statali. Non ci sono leggi per fronteggiare la crisi: le uniche esistenti servono a poco perché sono quelle approvate dallo Stato nazione in un’epoca in cui i capitali non potevano muoversi così facilmente fra i Paesi. A partire dagli anni ’70 essi cominciarono a circolare in massa e il dollaro divenne la moneta utilizzata per tali movimenti. Le banche hanno iniziato a guadagnare sugli interessi di questi soldi e a sviluppare nuove tipologie di strumenti. Il capitalismo ha funzionato anche grazie all’immigrazione che ha permesso l’aumento della produzione, quindi anche i profitti e, di conseguenza, i salari. La creazione di muri è stata la ragione del fallimento delle politiche protezioniste e di difesa del blocco sovietico. Ma la deregolamentazione diffusa e incontrollata ha segnato la fine di questo processo: un puro gioco d’azzardo che ha collassato il sistema e il collasso è totale, non parziale. 



Che situazione vivono i paesi emergenti in questo contesto?



I paesi emergenti si trovano a vivere un duplice problema. Le vecchie istituzioni e sicurezze sociali erano state create per rendere più vivibile la società. Quando sono crollate hanno provocato l’atomizzazione e l’individualizzazione delle comunità, lasciando le persone a dover affrontare i loro problemi quasi da soli. Nei Paesi in via di sviluppo è avvenuto il processo anche in senso inverso. Le persone vivevano nei grandi villaggi organizzati in clan o tribù, con l’arrivo dell’industrializzazione si sono trovati a vivere nelle grandi città completamente soli, senza forme di sicurezza sociale. La situazione è drammatica in particolare nei Paesi la cui economia è basata sulla dipendenza dall’esportazione. Prendiamo ad esempio la Cina: un grande paese in cui le attività aumentano e parlano il linguaggio del dollaro. In Cina il 60% delle persone vive con 430 dollari all’anno, però allo stesso tempo nelle città nel 2006 sono state vendute 221.000 di automobili dal valore di 50.000 dollari ciascuna. Se prendiamo a riferimento il coefficiente di Gini (un parametro di misurazione della diseguaglianza di distribuzione del reddito, n.d.r.) la Cina è al secondo posto nel mondo, seconda solo al Messico a cui seguono gli Usa. Più le economie dei paesi emergenti entrano nell’economia globale e più si trovano a subire i peggiori effetti negativi del capitalismo, senza avere strumenti per proteggersi. Ed è la povera gente a rimanere indifesa contro il capitale internazionale. 



I Paesi del sud del mondo sono in grado di proporre alternative al paradigma dello sviluppo occidentale?



Non vedo da nessuna parte la proposizione di alternative. Il capitalismo è cresciuto stabilmente per 700 anni, partendo dalle città stato italiane. Ogni suo salto è stato permesso dalle evoluzioni della tecnologia. La produzione su scala mondiale oggi è basata sull’anticipazione delle vendite realizzabili solo se ciò che si è previsto poi si verifica. Ciò necessita che tutti i fattori di previsione rimangano immutati, ad esempio la stabilità politica. Dove questo non si è potuto ottenere in maniera pacifica si è ricorsi alla guerra. E’ un processo inarrestabile. Il capitalismo è un sistema strano in cui la stabilità è basata sulla crescita economica, permessa dalla tecnologia. Non è stato solo il capitalismo a fare tutti quei danni, ma anche l’ideologia del neoliberalismo che la crisi finanziaria ha completamente distrutto. Le soluzioni politiche e sociali per minimizzare gli effetti negativi della crisi del capitalismo devono essere globali. L’unica alternativa è un sistema di governo che sia globale. Ma invece di questo assistiamo solo all’azione di stupidi Governi capaci di perdere otto anni e tanti milioni di vite giocando sulla paura del terrorismo.

Quale dovrebbe essere il ruolo dello Stato nazione nel costruire quello che nel libro viene definito “commonwealth”, bene comune?



Commonwelth è l’idea a cui dobbiamo tendere. Il mondo pare aver capito che c’è bisogno di un quadro legislativo globale, sappiamo che dobbiamo andare verso un sistema di regolamentazione globale, attraverso il quale i ricchi dovrebbero finalmente restituire ai poveri ciò che a loro spetta. La politica degli Stati Uniti nei Balcani e in Iraq, ad esempio, è l’opposto dell’idea di commonwealth perché una volta terminati i conflitti hanno voluto imporre un proprio modello di Stato. C’è invece bisogno di un sistema di governo comune globale, a cui si arriva solo con una visione chiara del futuro. E’ un processo lento nel quale ogni Stato volontariamente e gradualmente dovrà rinunciare ad alcuni pezzi della propria sovranità nazionale. Tutti i paesi devono dare fiducia ad un’autorità internazionale legittimata che può essere anche l’Onu riformato, oppure un altro organo sovranazionale. L’idea della democrazia globale degli Stati nazione è l’opposto della situazione globale che ha generato questa situazione.
 

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