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Il buio sopra la Striscia di Gaza: gli impatti dell’occupazione israeliana misurati dalle Nazioni Unite

Da 13 anni Israele ha imposto un blocco ininterrotto che ha causato restrizioni “draconiane” per l’economia e la circolazione delle persone, gettando Gaza in una “profonda crisi umanitaria”. Lo certifica, di nuovo e numeri alla mano, l’Agenzia Onu per il commercio e lo sviluppo (Unctad)

Gaza © Abdalsalaam Nafez - Unsplash

Nell’agosto del 2012 le Nazioni Unite avevano posto un obiettivo da realizzare entro il 2020: rendere la Striscia di Gaza un luogo dove fosse possibile tornare a vivere. Quell’obiettivo è fallito. Lo certifica, da ultimo, un nuovo rapporto dell’Agenzia Onu per il commercio e lo sviluppo (Unctad) pubblicato il 25 novembre e dedicato ai costi economici dell’occupazione israeliana per il popolo palestinese, in particolare sulle pesanti ripercussioni dell’embargo imposto sulla Striscia dal 2007.

Quest’anno Gaza ha registrato una “delle peggiori performance economiche e il più alto tasso di disoccupazione del mondo, con oltre la metà della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà e la stragrande maggioranza che non ha accesso ad acqua potabile sicura, elettricità o fognature adeguate, e patisce un significativo degrado ambientale. Dall’inizio del blocco e delle severe restrizioni all’attività economica e alla circolazione imposte tredici anni fa, i palestinesi della Striscia hanno vissuto un continuo deterioramento delle loro condizioni di vita”. Com’è noto infatti, da quando Hamas ha preso il potere nel giugno 2007, Israele ha imposto in quel territorio un blocco ininterrotto che ha comportato restrizioni “draconiane” (parole di Unctad) sull’attività economica e sulla circolazione di beni e persone, confinando due milioni di persone in un’enclave di 365 chilometri quadrati, con una delle più alte densità abitative del mondo. Questo, insieme alle periodiche “ondate di ostilità” da parte dell’esercito israeliano, ha comportato la “distruzione della capacità produttiva” dell’area, continua ancora il rapporto, oltre che una grave crisi umanitaria che ha condannato Gaza a dipendere in larga misura dagli aiuti dei donatori stranieri.

Attraverso i dati sulle spese e sui consumi delle famiglie e quelli dei censimenti, l’Unctad ha provato a fare una stima degli effetti del blocco, delle chiusure e delle operazioni militari subite da Gaza sul tasso di povertà assoluto e relativo delle famiglie e sul costo minimo dell’eliminazione della povertà nell’area. Gli elementi che l’agenzia ha dovuto tenere in considerazione sono numerosi, dal momento che le limitazioni imposte sono aumentate nel corso del tempo, andando a investire tantissimi aspetti della vita socio-economica dell’area. I punti di frontiera per il passaggio di merci e transitanti tra la Striscia e Israele prima del 2007 erano cinque, dopo sono scesi a due (Beït Hanoun con Israele e Rafah con l’Egitto), che sono aperti solo in casi particolari e accessibili con permessi speciali. Questo implica il controllo totale della circolazione di merci e manodopera: in tutti i territori palestinesi occupati c’è il divieto di importare i cosiddetti “beni civili a duplice uso”, oggetti comuni che potrebbero essere utilizzati per scopi militari, indicati in un elenco che comprende 56 voci -dai fertilizzanti ai tubi d’acciaio-, che nel caso di Gaza arriva fino a 117, includendo anche materiale edile e medico. Ma anche i prodotti indispensabili fanno fatica a superare la frontiera: da giugno 2007 a giugno 2010 sono entrati nella Striscia da Israele mediamente 2.400 camion al mese, nel 2005 erano 10.400.

Israele inoltre controlla anche la “zona di rischio” e la “zona tampone” che si estendono per diverse centinaia di metri dal confine verso l’interno dei territori e sono interdette agli agricoltori palestinesi, così come lo spazio aereo e quello marittimo. Secondo gli Accordi di Oslo del 1993 i pescatori potrebbero spingersi fino a venti miglia nautiche dalla costa, ma Israele limita la loro attività in uno spazio molto inferiore (che recentemente ha esteso a 12 miglia ma in passato è arrivato a tre), sottoponendo i “trasgressori” a violenze (sfociate in alcuni casi in uccisioni), arresti e confische delle imbarcazioni.

Poi ci sono state nel corso del tempo tre importanti offensive militari che sono costate la vita a 3.804 palestinesi e 95 israeliani. Nell’attacco mosso tra il 27 dicembre 2008 e il 18 gennaio 2009 -l’operazione “Piombo fuso” raccontata in prima persona dall’attivista e scrittore italiano Vittorio Arrigoni- sono morti 1.400 abitanti della Striscia (e 13 israeliani), 5.380 persone sono state ferite e circa 60.000 case distrutte o colpite; nel novembre del 2012 otto ore di ostilità hanno provocato la morte di 174 palestinesi, tra cui 107 civili (e sei israeliani, tra cui tre civili) e il danneggiamento di circa 10.000 abitazioni; nello scontro consumato tra l’8 luglio e il 26 agosto 2014, sono stati uccisi 2.251 palestinesi, di cui almeno 146 civili (e 71 israeliani, di cui cinque civili) e sono state danneggiate 171.000 case, di cui 17.800 risultate totalmente inabitabili, causando lo sfollamento dei loro 100.000 abitanti.

L’opera di Banksy sul muro stringe Betlemme, in Cisgiordania – © Dan Meyers – Unsplash

Dal punto di vista economico, gli indicatori mostrano che nel periodo di 24 anni che va dal 1994 al 2018, il Prodotto interno lordo reale di Gaza è cresciuto del 48% a fronte però di un aumento del 137% della popolazione, che si traduce in un calo del 37% del Pil reale pro capite. Allo stesso tempo, la disoccupazione a Gaza è aumentata di 22 punti percentuali, attestandosi al 52%, come già detto una delle più elevate del mondo.

Ma secondo l’Untad poteva andare diversamente. Dal 1994 al 1999, dopo la firma degli Accordi di Oslo, Gaza ha vissuto un periodo di un eufemistico “benessere” con una crescita media annua del 6,1% (in Cisgiordania era stata 10,7%), ma nel 2000, dopo la seconda Intifada, le cose sono cambiate.
Israele ha vietato ai lavoratori palestinesi di Gaza di lavorare fuori dalla Striscia, negli anni successivi gran parte delle infrastrutture e delle istituzioni pubbliche e private sono state distrutte e la circolazione dei lavoratori e delle merci è stata severamente limitata. Tra il 2000 e il 2006 l’economia di Gaza è cresciuta appena del 2% e dal 2007, con la chiusura totale, si è attestata in media solo sullo 0,8% annuo (la Cisgiordania, anch’essa occupata e soggetta a restrizioni e controlli, è cresciuta a un tasso annuo del 6,6%).

“I risultati dell’economia regionale di Gaza sono sempre stati ben al di sotto del suo potenziale a causa dell’occupazione e delle misure restrittive che l’accompagnano -scrivono gli analisti dell’Unctad-. La chiusura e le restrizioni economiche e di movimento imposte alla Striscia di Gaza dal 2007 e le successive ricorrenti ostilità continuano a ostacolare la realizzazione del suo pieno potenziale economico e hanno causato una profonda crisi economica e umanitaria”. L’agenzia Onu ha anche elaborato una stima “scientifica” del costo minimo per l’eliminazione della povertà a Gaza: per cancellare la povertà nella Striscia nel 2007 sarebbero “bastati” 209 milioni di dollari, nel 2017 questo ammontare è schizzato a 838 milioni. La strada indicata dal report a cura dell’Unctad è quella dell’eliminazione dell’embargo e dei divieti connessi: “Gaza dovrebbe poter scambiare liberamente beni e servizi con il resto dei Territori occupati, così come con i mercati vicini, e dovrebbe essere ripristinata la libertà di movimento per gli affari, l’assistenza medica, l’istruzione, le attività ricreative e il ricongiungimento famigliare”.

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