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Il bisogno di indebitarsi – Ae 71

Le famiglie italiane chiedono sempre più credito. Ma per troppi il mutuo rimane una spesa insostenibile Erano gli anni ’50 quando i miei nonni si trasferirono in città. Entrambi sospettavano delle banche, nessuno voleva avere debiti. Fu così che uno…

Tratto da Altreconomia 71 — Aprile 2006

Le famiglie italiane chiedono sempre più credito. Ma per troppi il mutuo rimane una spesa insostenibile

Erano gli anni ’50 quando i miei nonni si trasferirono in città. Entrambi sospettavano delle banche, nessuno voleva avere debiti. Fu così che uno rimase con tutta la famiglia a casa della madre. L’altro prese una casa in affitto e adesso, dopo mezzo secolo, ha uno sfratto esecutivo. Oggi l’atteggiamento delle famiglie italiane verso il credito è cambiato. Dalla fine degli anni ’90 si è assistito in Italia a un vertiginoso aumento dei prestiti concessi alle famiglie, che superavano alla fine dello scorso anno i 300 miliardi di euro. Si tratta per la maggiore parte di mutui per l’acquisto della casa, ma anche di altre forme di prestito, come il credito al consumo. La crescita media dei mutui tra il 1997 e il 2005 ha sfiorato in Italia il 20% l’anno, quasi il doppio rispetto alla media degli altri Paesi dell’area dell’euro. Un valore ancora più interessante se rapportato alla crescita contenuta dell’economia di questi anni: l’indebitamento per l’acquisto dell’abitazione è passato dal 5 al 14% del Pil.

La forte accelerazione dei mutui degli ultimi anni è sostanzialmente legata a tre fattori, i quali a loro volta si influenzano l’un l’altro rendendo difficile stabilire dei nessi di causalità chiari. Tutto è iniziato con la caduta dei tassi di interesse dalla metà degli anni Novanta, legata all’ingresso nell’area dell’euro. Dal 1997 i tassi di interesse reali sono scesi di oltre sei punti percentuali, portando a un notevole ridimensionamento dell’onere delle rate dei mutui (vedi grafico a destra). Parallelamente si è registrata un’impennata negli scambi sul mercato immobiliare: le compravendite di abitazioni si sono moltiplicate determinando un trend crescente nei prezzi delle abitazioni, ancora osservabile.

Nello stesso periodo, i cambiamenti nella legislazione bancaria dei primi anni Novanta hanno cominciato a dare frutti: sono entrate nuove banche nel mercato dei mutui, prima sostanzialmente ingessato da una normativa vetusta, e la maggiore concorrenza ha generato un ulteriore abbassamento dei tassi e soprattutto una forte innovazione di prodotto. Se il tipico mutuo disponibile negli anni ’60 aveva una durata di quindici anni, un tasso fisso e finanziava circa la metà dell’immobile garantito, negli ultimi anni si è assistito a un’esplosione delle tipologie contrattuali, tra le quali ogni famiglia può scegliere quella più adatta alle proprie esigenze. Sono stati anni favorevoli per l’acquisto della casa, poiché i maggiori prezzi degli immobili sono stati compensati dal calo dei tassi di interesse e dall’ampliamento della durata dei mutui.

È quindi una storia a lieto fine? Almeno in linea generale, sembrerebbe di sì.

Il maggiore indebitamento delle famiglie non è infatti da guardare con sospetto, almeno quando è al di sotto di una soglia critica. Se si guarda alla situazione italiana rispetto all’esperienza internazionale, si nota che nonostante la forte crescita degli ultimi anni il rapporto tra mutui e Pil è inferiore alla metà di quello della media dei Paesi dell’area dell’euro (grafico in basso a sinistra) e a circa un quinto di quello dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Il debito per le famiglie italiane sembra quindi ancora lontano dal raggiungimento di una soglia critica, ma sta anzi avvicinandosi a livelli normali, testimoniando una maggiore possibilità per le famiglie di diluire su un orizzonte ampio l’impatto dei propri consumi.

Ci sono però due fattori che ancora devono essere presi in considerazione: innanzitutto, se passiamo dal generale al particolare e ci focalizziamo su tipi specifici di famiglie, le conclusioni possono essere del tutto diverse. Sono stati pubblicati di recente i risultati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane, un’analisi campionaria condotta dalla Banca d’Italia e riferita a un campione rappresentativo di circa 8.000 famiglie. Questi dati mostrano che, per la media delle famiglie intervistate, il mutuo incide solo sul 14% del reddito disponibile. Analizzando i comportamenti per fasce di reddito, i nuclei che più si indebitano per la casa risultano quelli più abbienti (al 25% delle famiglie più ricche fa capo il 40% del totale dei mutui); per questi soggetti il servizio del debito scende addirittura all’11% del reddito disponibile. La situazione cambia completamente per le famiglie con i redditi più bassi (il 25% meno abbiente). Per queste l’indebitamento appare un fenomeno meno diffuso (riguarda il 4% dei nuclei familiari e l’8% del totale dei mutui erogati), perché è più difficile trovare banche disposte a finanziare soggetti a basso reddito o con un lavoro precario.

Per le famiglie che riescono a ottenere un mutuo il peso della rata,-secondo i dati del Bollettino economico di marzo della Banca d’Italia- si fa decisamente più stringente: circa il 30% del reddito disponibile. Questa quota, che in sé non è ancora elevatissima, diventa allarmante se si considera che stiamo parlando di stipendi che non superano i 1.200 euro mensili. Togliere un terzo dallo stipendio di un dirigente non è la stessa cosa che farlo a un operaio, dato che esiste una quota di consumi incomprimibile, oltre la quale si scivola verso la povertà.

Un secondo fattore di allarme è ascrivibile all’ampio ricorso a mutui a tasso variabile, che prevedono cioè un tasso d’interesse rapportato ai rendimenti del mercato internazionale. Oggi i tassi sono al minimo storico e un rialzo di un paio di punti percentuali nei prossimi due anni non appare improbabile.

È quindi importante che chi contratta il mutuo, al momento di stabilire l’importo e quindi la rata, tenga presente concretamente la possibilità di aumenti nei tassi.

Che potrebbe succedere in caso di rialzi, in parte già realizzati?

Ancora una volta la risposta è rassicurante per la media dei soggetti. Nel caso di un aumento di due punti percentuali, l’incidenza sul reddito disponibile per le famiglie che hanno contratto un mutuo a tasso variabile salirebbe di altri 3 punti percentuali, arrivando al 17%. Per le famiglie a basso reddito, invece, la crescita sarebbe di 7 punti, facendo salire l’incidenza sul reddito quasi al 40%, un valore che potrebbe per alcuni essere insostenibile. Si può guardare soltanto alla media

e pensare che l’indebitamento a rischio sia un fenomeno marginale, ma secondo

i risultati campionari esso riguarda parecchie decine di migliaia di persone.

Forse mio nonno sarebbe stato tra queste.

e se esplode la bolla?

Nell’esperienza italiana degli ultimi vent’anni non si riscontrano fenomeni

di vero e proprio “scoppio” di una bolla immobiliare. Anche al termine dell’impennata dei prezzi delle abitazioni registrata tra il 1987 e il 1992,

il costo nominale del mattone è rimasto sostanzialmente stabile fino alla fine

degli anni Novanta, contraendosi soltanto in termini reali. Inoltre il recente boom immobiliare italiano ha riportato i prezzi degli immobili a un valore di poco superiore al picco del 1992, con una crescita che, seppur considerevole, rimane molto inferiore rispetto a quella di altri Paesi,

primi tra tutti la Spagna e la Gran Bretagna.

Non appare probabile un crollo dei prezzi immobiliari simile a quello registrato per i corsi azionari. Ma nell’ipotesi che ciò dovesse accadere, si avrebbero due tipi di effetti. Per le famiglie che hanno acquistato casa per abitarci l’impoverimento sarebbe soltanto apparente perché, anche nel caso in cui dovessero vendere per cambiare casa, beneficerebbero comunque della possibilità di acquistare a prezzi minori.

La perdita sarebbe per chi ha acquistato a scopo speculativo: il valore dell’investimento crollerebbe.

Dal punto di vista delle banche, una riduzione del valore dell’immobile in garanzia potrebbe imporre, nel caso di insolvenza delle famiglie, rilevanti svalutazioni di bilancio con possibili ripercussioni sulla redditività e quindi sulla stabilità del sistema bancario.

Anche in questo caso, comunque, l’entità di tali svalutazioni non sembra in grado di condizionare in modo decisivo la buona situazione patrimoniale e reddituale delle banche italiane, che l’anno scorso hanno registrato un incremento dell’utile del 37%.

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