Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Interni

I ricchi vivono di rendita

L’Italia ha scelto di non tassare il patrimonio, risorse (spesso) improduttive. Il fisco colpisce il reddito da lavoro, creando disuguaglianze sempre più marcate 

Tratto da Altreconomia 134 — Gennaio 2012

Immaginate una città come Napoli, quasi un milione di abitanti, e che ci vivano solo donne che hanno un lavoro dipendente e guadagnano 1.131 euro al mese.
Sommando tutto il loro reddito di un anno, non arriverete a mettere insieme il valore del patrimonio della famiglia più ricca d’Italia, secondo la celebre classifica della rivista Forbes quella dell’imprenditore Michele Ferrero, che ammonta a 18 miliardi di dollari. Se il numero di quelle donne fosse pari a quello degli abitanti di Roma, 3 milioni circa, il loro reddito non supererebbe comunque la ricchezza che hanno in mano le dieci persone più abbienti del Paese. Possiamo fermarci qui con i numeri, e chiederci se l’Italia è un Paese ricco o un Paese povero. Prima risposta: l’Italia della crisi è un Paese in cui la ricchezza totale -vale a dire il valore monetario dei patrimoni mobiliari e immobiliari- è cresciuta molto negli ultimi anni, e occupa l’ottavo posto a livello mondiale.

Secondo l’ultimo rapporto della Banca d’Italia, alla fine del 2010 il valore totale lordo (che comprende cioè anche le passività finanziarie come prestiti o mutui) era stimabile in 9.525 miliardi di euro, in lieve calo -meno 1,5%- rispetto al 2009. A questo dato corrisponde una media di 400mila euro a famiglia. È rimasta pressoché invariata rispetto all’anno precedente, quando era salita dell’1,1% grazie soprattutto alle rendite finanziarie. “La distribuzione della ricchezza è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione -scrive la banca centrale, oggi guidata da Ignazio Visco-: molte famiglie detengono livelli modesti o nulli di ricchezza; all’opposto, poche famiglie dispongono di una ricchezza elevata”.
La stessa identica frase che troviamo ormai da anni nel rapporto della Banca d’Italia. La metà più povera delle famiglie italiane detiene il 10% della ricchezza totale, mentre il 10% più ricco il 45%. Tradotto fuori dal linguaggio delle percentuali: 30 milioni circa di persone hanno a disposizione un patrimonio di 860 miliardi di euro, mentre sei milioni di persone possiedono 3.800 miliardi di euro.
Il celebre “indice di Gini”, la complessa misurazione della disuguaglianza, nel 2009 segnava per il nostro Paese 0,613, in una scala variabile da 0 -massimo livello di uguaglianza- a 1. Nel 2010 si stima sia cresciuto allo 0,624.
Consideriamo che il 62,2% della ricchezza lorda italiana ha a che fare con le attività reali, il resto sono attività finanziarie (37,8%). Si capisce bene così perché il nostro Paese non è ancora socialmente collassato: l’Italia è una Repubblica sempre più fondata sulle abitazioni, che valgono ben l’84% della ricchezza reale, e quindi circa la metà di quella complessiva. Pur essendo il patrimonio immobiliare molto concentrato (vedi Ae 132), si stima che l’80% degli italiani viva ancora in una casa di proprietà.
Nel 2010 la ricchezza netta del Paese è 8,3 volte il reddito disponibile, nel 1999 il rapporto era 7: ciò significa che la forbice fra il reddito da lavoro che le persone hanno a disposizione al netto delle tasse è sempre più debole rispetto a quello accumulato negli anni. In Francia è 7,5 volte e negli Stati Uniti d’America 4,9.

Il Fondo monetario internazionale, invece, pubblica dati comparativi relativi alle imposte che riguardano i patrimoni,  che sono tutte tasse speciali come quella sugli immobili, la tassa di successione o per il trasferimento degli immobili. In Italia, dove sono state abolite o ridimensionate dal governo Berlusconi. ne risulta un valore percentuale sul Pil fra i più bassi d’Europa: 2,1% rispetto al 4,5 % della Gran Bretagna e il 3,5% della Francia. A fronte di questo dato, la tassazione italiana sui redditi è più alta che in altri Paesi (secondo Confindustria, in due anni potrebbe superare il 45%). L’inversione di tendenza è confermata dai dati contenuti nei rapporti annuali “Taxation trend in the European Union” dell’Unione europea: nel 1995, il gettito fiscale italiano proveniente dalle imposte patrimoniali era il 9,7% del totale. Negli ultimi anni, questa quota è calata per assestarsi al 5,8%, mentre nella gran parte degli altri Paesi europei il trend era inverso -nel Regno Unito, passato dal 10,5 al 14,9%, in Francia dal 10 al 10,5%, in Spagna dal 7,4 all’8,2%-. Paesi che, a differenza dell’Italia -e della Germania, che presenta lo stesso trend- recuperano sempre più risorse dai patrimoni, dove si annidano le maggiori rendite.

“Sulla tassazione dei patrimoni l’Italia ha fatto delle scelte piuttosto chiare negli ultimi anni -commenta Alessandro Santoro, docente di Politica economica all’Università Bicocca di Milano-. Nel 1996 è stata abolita la patrimoniale sulle imprese, poi è stata ridotta l’Ici, che poi è sparita. Non ho mai condiviso le ragioni di queste scelte, assurde alla luce del varo, quasi in contemporanea, del ‘federalismo fiscale’, che ovunque nel mondo si basa sulla tassazione degli immobili e della prima casa. Furono scelte che tutti gli schieramenti politici sostennero. Il nodo è un altro: i patrimoni possono essere usati in modo produttivo o improduttivo. È possibile che un sistema fiscale cerchi di tassare di più i patrimoni improduttivi e di meno quelli che sono più produttivi. In realtà esistono già forme di tassazione ‘normale’ che prendono il valore presunto del patrimonio. E ci sono ipotesi di tassazione che riprendono l’idea einaudiana di premiare chi utilizza immobili e patrimoni in maniera più efficiente”.
Aldilà dell’imposta sulla prima casa, sarebbero dunque ipotizzabili imposte patrimoniali declinate al plurale, che dovrebbero riguardare soprattutto le ricchezze immobiliari che non creano benessere, ma contribuiscono a una concentrazione sempre più alta della ricchezza, alimentando rendite talvolta senza pagare nemmeno le tasse, come accade con la diffusa pratica degli affitti fatti pagare in nero.
“La vera ragione per cui bisogna pensare alla tassazione del patrimonio -prosegue Santoro- risiede nel fatto che esiste una letteratura economica molto ‘solida’ che sostiene che di tutte le forme di tassazione quella sui patrimoni, e in particolare sugli immobili, pregiudica di meno la crescita economica. La seconda ragione è invece legata all’equità: se osserviamo ai dati, si nota che la ricchezza immobiliare è molto più concentrata fra le famiglie ad alto reddito di quanto sia il reddito stesso. Vuol dire che una quota elevata è detenuta da soggetti che hanno redditi più alti. Questo è un dato positivo, perché tassando di più il patrimonio, e magari riducendo le aliquote sui redditi da lavoro più bassi, si aumenta la progressività e si crea equità. Inoltre, il fatto che la ricchezza immobiliare sia concentrata laddove vi sono i redditi più alti, riduce i problemi di liquidità che potrebbero sorgere per alcuni soggetti. Le questioni su cui riflettere, e sulle quali il dibattito politico è scarso, sono invece due: se tassare solo il patrimonio immobiliare, perché tassare quelli mobiliari sarebbe rischioso dal punto di vista costituzionale, dato che in molte forme sono già tassati, e se attribuire il gettito agli enti locali o renderla imposta erariale”.
La ricchezza immobiliare, quindi, è quella che è in mano a chi ha redditi più alti e da cui si potrebbero trarre più risorse per le politiche di riduzione del debito pubblico –alleggerendo quindi il peso degli enormi interessi che lo Stato vi paga-. Secondo i dati della Banca d’Italia che abbiamo visto, è anche la ricchezza più considerevole e la più difficile da “nascondere”, a differenza di quelle mobiliari che spesso se ne vanno dal Paese.
Un’indagine di due ricercatori della Banca d’Italia, Vittoria Pellegrini ed Enrico Tosti, resa pubblica a fine luglio e quindi prima dell’ultima forte ondata speculativa sul debito italiano, ha stimato che sui conti che gli italiani hanno illegalmente in dotazione all’estero siano presenti 150 miliardi di euro, investiti in vari titoli. Lo scudo fiscale dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti avrebbe fatto rientrare una cifra corrispondente al 30-50% dei capitali, circa 50 miliardi. Due terzi dei capitali italiani attualmente presenti all’estero si valuta siano investiti in azioni, fondi, obbligazioni e titoli pubblici, mentre il restante in conti e depositi bancari. Dal 2001 al 2008 il 52,5% delle azioni e i fondi italiani all’estero hanno investito in Lussermburgo, l’8,2 negli Stati Uniti d’America, il 7,3 in Irlanda e l’1,9% in Svizzera. La ricchezza italiana è dunque anche più grande di quella che le statistiche ufficiali fanno sembrare.

Giovanni D’Alessio, ricercatore della Banca d’Italia, ritiene che “sia rilevante spostare l’attenzione sul ruolo della ricchezza già accumulata in rapporto a quella che può essere prodotta e accumulata in futuro. Il nostro Paese -spiega- ha incrementato in misura assai più consistente la propria ricchezza rispetto alla produzione. Questo indicatore testimonia la crescente rilevanza delle condizioni patrimoniali rispetto a quelle reddituali nella nostra società, aspetto che può assumere un rilievo in termini di incentivi allo sviluppo e in termini di disuguaglianza. La ricchezza che proviene dal passato è oggi più rilevante di ieri in rapporto a quella che è possibile procurarsi giorno dopo giorno con l’attività lavorativa e di impresa”.
Una ricchezza concentrata e proveniente dal passato, che spesso non produce reddito né crescita, ma alimenta solo se stessa attraverso le rendite e le diseguaglianze ed è molto più consistente dei livelli di reddito già di per se molto diseguali. “La diseguaglianza in Italia -conferma Marco Leonardi, che insegna Economia alla Facoltà di Scienze politiche dell’Università Statale di Milano- è un fenomeno molto generazionale. Il mercato del lavoro è diviso in due e l’accumulazione della ricchezza è stata possibile solo fino a qualche anno fa. La ricchezza è distribuita in maniera non drammaticamente diseguale, ma si concentra negli adulti e negli anziani. Si propone il problema generazionale, i figli non possono più avere i diritti dei padri. Oggi le generazioni giovani non riescono a comprarsi casa perché non risparmiano. Le ricchezze in genere sono ereditate e non costruite”. —

 

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.