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I pozzi dei misteri. Quanto petrolio rimane? – Ae 52

Numero 52, luglio/agosto 2004La benzina è sempre più cara, Shell svela che le sue riserve di greggio sono ben al di sotto di quanto dichiarato, i Paesi Opec centellinano la produzione. La verità è che l'oro nero non è infinitoCon…

Tratto da Altreconomia 52 — Luglio/Agosto 2004

Numero 52, luglio/agosto 2004

La benzina è sempre più cara, Shell svela che le sue riserve di greggio sono ben al di sotto di quanto dichiarato, i Paesi Opec centellinano la produzione. La verità è che l'oro nero non è infinito

C
on chi dobbiamo prendercela se la benzina è sempre più cara? Con i Paesi arabi che usano il petrolio come arma contro l'Occidente, con le compagnie petrolifere che speculano sulle tensioni geopolitiche, o con il governo che grava la benzina con una sorta di moderna “tassa sul macinato”?

Naturalmente nessuno è disposto ad addossarsi la colpa e cerca di scaricarla sugli altri. In compenso tutti assicurano che non ci sono ragioni strutturali dietro questo aumento dei prezzi: anche se la domanda cresce l'offerta è in grado di soddisfarla e c'è petrolio in abbondanza.

Ma i dubbi cominciano a diffondersi e per diverse buone ragioni.

Un primo segnale preoccupante si è avuto nel gennaio scorso, quando la Shell ha improvvisamente annunciato una riduzione del 20% delle sue riserve petrolifere, riduzione equivalente a circa 3,9 miliardi di barili di petrolio. L'annuncio provocò un immediata caduta delle quotazioni di borsa della compagnia e le dimissioni dei top manager, e i suoi effetti non sono ancora terminati (vedi box nella pagina accanto).

Dopo un calo delle quotazioni (fino al 15%) il valore delle azioni è però risalito, sospinto dalla sostanziale solidità di questa enorme multinazionale, dalla promessa di ottimi dividendi nei prossimi anni (grazie all'alto prezzo del petrolio) e all'impegno di ridurre il personale di 2.800 unità spostando in India e Malesia molte attività tecnologiche. Ma il dato che rimane è che per diversi anni la Shell non sarà in grado di sostituire il petrolio venduto con nuove riserve: per ogni dieci barili venduti solo sei saranno rimpiazzati. Per gli altri bisognerà sperare in nuove scoperte.

Naturalmente il caso Shell ha sollevato dubbi anche sulle riserve delle altre grandi compagnie, che hanno subito rassicurato gli investitori garantendo l'assoluta correttezza delle loro stime.

Ma la trasparenza non è la principale virtù nel settore petrolifero.

Se le società quotate in Borsa sono soggette ai controlli della Sec (Securities and Exchange Commission), lo stesso non si può dire di Paesi produttori -e in particolare dell'Opec- che da anni dichiarano di possedere riserve petrolifere che restano praticamente invariate, nonostante le nuove scoperte siano ben al di sotto della produzione. A inizio anno gli 11 membri dell'Opec decisero di ridurre la produzione di petrolio di un milione di barili al giorno a partire da aprile. Una decisione fortemente contestata dai Paesi consumatori, perché presa in un momento in cui i prezzi erano comunque alti e che avrebbe potuto portare, come poi avvenne, a ulteriori tensioni sul mercato. Secondo molti analisti a motivare quella decisione fu il deprezzamento del dollaro, e la volontà dei Paesi Opec di difendere il valore reale delle loro esportazioni. Ma qualcuno avanzò anche il sospetto che una riduzione della produzione fosse la conseguenza inevitabile del ridursi delle riserve e della necessità quindi di gestirle con maggior parsimonia. !!pagebreak!!

All'inizio di giugno l'Opec ha deciso di aumentare la produzione di due milioni di barili al giorno, riservandosi un ulteriore aumento se questo non bastasse a raffreddare i prezzi. Ma la decisione non è stata indolore. Di fatto solo l'Arabia Saudita è in grado di aumentare sensibilmente la sua produzione in breve tempo, mentre altri paesi come il Venezuela, che è tra i maggiori fornitori degli Usa, sono ormai al massimo delle loro capacità produttive.

I prezzi sostenuti e in continuo movimento fanno aumentare i profitti delle compagnie petrolifere ma servono anche ad accumulare i capitali indispensabili per sostenere la produzione e per la ricerca di nuovi giacimenti. Secondo le previsioni dell'International Energy Agency nei prossimi 30 anni saranno necessari investimenti nel settore petrolifero per oltre 3.000 miliardi di dollari per far fronte alla crescita della domanda.

Tuttavia il problema vero è se ci sarà ancora petrolio da scoprire e mettere in produzione. Da anni l'Aspo (Association for the Study of the Peak Oil) richiama l'attenzione sulla scarsità delle risorse mondiali e sulla possibilità che il picco della produzione petrolifera venga raggiunto entro questo decennio. Forse le tensioni sul mercato sono un'indicazione che a questo picco ci stiamo avvicinando rapidamente.

All'inizio di giugno Matthew Simmons, titolare di una delle maggiori banche di investimento nel settore energetico americane e consigliere dell'amministrazione Bush, ha messo formalmente in dubbio che le riserve petrolifere dell'Arabia Saudita siano realmente al valore dichiarato e ha avanzato l'ipotesi che i campi petroliferi giganti che forniscono circa il 20% del petrolio consumato nel mondo siano ormai vicini al declino della loro produzione. Il ministero saudita del petrolio ha subito smentito ogni allarmismo, ma nulla ha fatto per rendere più chiare le valutazioni delle sue riserve. Ma è proprio su questo punto che chiarezza e trasparenza sono ormai sempre più indispensabili.

Il rischio di una crisi petrolifera, con conseguenze potenzialmente disastrose sull'economia mondiale, è tutt'altro che trascurabile. Gli studi dell'Iea indicano che un aumento del prezzo del petrolio di 10 dollari al barile comporta una diminuzione del prodotto lordo su scala mondiale dell'ordine dello 0,5 %, con conseguenze gravi sull'occupazione e sull'inflazione, e gli effetti previsti sono più accentuati per i Paesi poveri e in via di sviluppo.

Preoccupazioni sono state espresse in diverse sedi politiche ed economiche e sono rimbalzate sulle pagine dei giornali.

Un articolo comparso qualche tempo fa su “Le Monde” riprendeva la proposta di chiedere alle Nazioni Unite un accordo tra tutti i Paesi per porre sotto controllo i consumi e la produzione di petrolio, in modo che nessun Paese possa produrre più di quanto stabilito in base ad una analisi scientifica delle sue riserve, e che ogni Paese importi solo una quantità concordata.

Il primo passo sarebbe ovviamente disporre di una valutazione indipendente delle riserve esistenti, proposta finora sempre respinta da compagnie e Paesi produttori. !!pagebreak!!

Le riserve gonfiate di Shell, i manager sapevano
A gennaio la Royal Dutch/Shell, terza compagnia petrolifera mondiale, ha scosso il mondo della finanza comunicando una riduzione del 20% delle sue riserve “provate”. L'aggettivo si riferisce al petrolio che è possibile estrarre in tempi brevi a prezzi di mercato, l'unico che, secondo le rigide regole della Sec (la Securities and Exchange Commission che controlla le società quotate alla Borsa americana) può essere indicato nei bilanci. In sostanza è il petrolio che si può considerare già pronto per sostituire quello che viene pompato e venduto.

Gli azionisti hanno reagito all'annuncio imponendo l'allontanamento del presidente, sir Philip Watts, del responsabile della ricerca e produzione Walter van de Vijver, il rinvio della presentazione del bilancio e l'avvio di una indagine interna. Nei mesi successivi ci sono state ulteriori riduzioni delle riserve provate, fino a un totale (in aprile) di circa 4,85 miliardi di barili che ai prezzi attuali equivalgono a oltre 170 miliardi di dollari.

A fine aprile anche Judy Boyton, responsabile finanziaria della società, è stata destituita, dopo che sono emersi retroscena di discussioni, e-mail e altre comunicazioni interne da cui risulta che la sopravvalutazione delle riserve era nota da anni ai top manager.

Ora i dirigenti della Shell sono impegnati a rispondere alle indagini avviate dalla Sec e dalla corrispondente autorità finanziaria inglese, che ha anch'essa avviato una inchiesta.

La colpa di quanto è successo è stata gettata interamente sulle spalle dell'ex presidente, che fu responsabile della ricerca e produzione prima di van de Vijver, e che avrebbe gonfiato soprattutto le riserve dei campi nigeriani, dove aveva lavorato.

Al di sopra delle quote, rincorrendo i consumi cinesi
Il sistema delle quote stabilisce la quantità di petrolio che ogni Paese dell'Opec dovrebbe immettere giornalmente sul mercato. In realtà la maggior parte dei Paesi Opec producono da sempre al di sopra delle quote ufficiali, e anche nei mesi scorsi la riduzione di un milione di barili al giorno decisa a partire da aprile non è stata rispettata (vedi tabella in alto).

Di fatto anche l'aumento di produzione deciso il 3 giugno scorso non fa altro che ratificare la consistenza della produzione attuale e quindi, se fosse rispettato, non porterebbe più petrolio sui mercati.

L'aumento dei consumi petroliferi è strettamente legato alla crescita dell'economia mondiale, alimentata non solo dai Paesi ricchi ma anche dall'enorme aumento dei consumi cinesi che nel 2003 sono cresciuti del 30% facendo della Cina il secondo importatore di petrolio dopo gli Stati Uniti.

Secondo le previsioni dell'International Energy Agency, i consumi di Pechino sono destinati a raddoppiare entro il 2010, o anche prima se l'economia cinese continuerà a crescere ai ritmi attuali.

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