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Opinioni

I parametri finanziari dell’accoglienza

La proposta della Commissione europea ai Paesi membri dell’UE di "pagare una somma" per tener fuori i richiedenti asilo trasforma una questione sociale, etica e civile in un dato meramente economico. Nella stessa direzione vanno l’idea di distribuire le quote dei rifugiati in base ad indicatori quali il prodotto interno lordo o il tasso di disoccupazione, o di allentare il Patto di stabilità relativo alle spese per l’accoglienza. Si va così trasformando un dovere legato alla nozione di "comunità"

La proposta della Commissione europea di consentire, sia pur in via eccezionale, ai vari Paesi che non intendessero accogliere i richiedenti asilo di evitare gli ingressi pagando una somma pari a una percentuale del proprio prodotto interno lordo (PIL), rappresenta una soluzione assai controversa e per molto versi discutibile.
Si tratta della cosiddetta clausola “opt-out” che, in estrema sintesi, monetizza la possibilità di tenere le frontiere nazionali chiuse, trasformando una questione sociale, etica e civile in un dato meramente economico. Usando una semplificazione alquanto cruda ma senza dubbio calzante, una simile ipotesi assomiglia molto al comportamento di chi paga un altro per svolgere, al proprio posto, un’attività “fastidiosa”. In questo modo, però, l’immediata conseguenza dell’introduzione della prerogativa di pagare per una propria mancanza rischia di rendere meno evidente la natura sanzionatoria del trasferimento finanziario richiesto, che assume invece i contorni del mero atto “sostitutivo”, oneroso certo ma non illegittimo rispetto ad un dovere intrinseco alla nozione di “comunità” europea.

Tende a venire meno così anche il giudizio di valore che la sanzione dovrebbe contenere per rendere quantomeno tollerabile il mancato assolvimento degli obblighi internazionali, sostituito -appunto- da una prestazione solo monetaria. 
Nella stessa direzione si muovono due altri elementi emersi nelle recenti prese di posizione della Commissione europea. Il primo è costituito dall’idea di distribuire le quote dei rifugiati in base ad alcuni indicatori pressoché unicamente economici: peseranno in tal senso come parametri principali per il 40% il Pil del Paese ospitante, per il 20% la popolazione, per il 10 per cento il tasso di disoccupazione e per un altro 10% il numero dei profughi già accolti. È evidente che una ripartizione retta su questi principi considera il livello di debolezza economica di un Paese, misurata in base all’opinabile Pil e all’altrettanto discutibile tasso di disoccupazione, la condizione primaria per considerarlo "inidoneo all’accoglienza", prescindendo da ogni dato di carattere culturale, a cominciare dalla sua storia e dalle sue tradizioni. Peraltro il tasso di disoccupazione risulta sempre più un parametro contraddittorio e difficilmente applicabile a contesti dove il gran numero degli “scoraggiati” -quelli non censiti dalla disoccupazione perché non in cerca di lavoro- è molto alto.

Il secondo elemento è rintracciabile nelle proposte, provenienti da più parti, di escludere dal Patto di stabilità le spese e gli interventi posti in essere per sostenere l’accoglienza dei profughi. In linea di principio, questa soluzione è certamente ragionevole, così come appaiono opportune tutte le ipotesi che caldeggiano l’eliminazione dal calcolo del deficit delle misure necessarie per combattere il dissesto idrogeologico o per promuovere le infrastrutturazioni essenziali alla migliore diffusione dei saperi. Ancora una volta, tuttavia, la preoccupazione indotta dall’insistenza sulla natura finanziaria della questione dell’accoglienza è quella di ritenere in grado di realizzarla solo quelle realtà statuali in possesso delle risorse. Se diventa possibile pagare per non aprire le porte del proprio Paese, se i criteri per stabilire chi può accogliere i profughi sono soltanto finanziari e se, per allargare il novero dei Paesi ospitanti, si ritiene legittimo allentare il Patto di Stabilità, allora il tema di come l’Europa dovrà immaginare se stessa di fronte alla sfida epocale originata dalle migrazioni si limita, purtroppo, ad un’unica dimensione. E ciò significa aver perso di vista l’importanza di costruire una condivisa appartenenza comunitaria, capace di tradurre l’accoglienza in un valore fondante. Qualora venga ridotta a termini monetari l’accoglienza sarà nella migliore delle ipotesi un fastidio, nella peggiore un grande pericolo.

* Alessandro Volpi, Università di Pisa

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