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I deboli anticorpi contro il caporalato e i tentativi in campo per misurare e contrastare lo sfruttamento

Il numero dei lavoratori in “nero” in Italia aumenta mentre diminuiscono le risorse per rilevare e contrastare il fenomeno, che colpisce lavoratori “irregolari” e “regolari”, in particolare nel settore agricolo. Le nuove unità operative messe a disposizione dell’Ispettorato nazionale del lavoro, peraltro, non saranno operative prima del 2021. Il punto della situazione a tre anni dalla legge 199

Il numero dei lavoratori in “nero” in Italia aumenta mentre diminuiscono le risorse per rilevare e contrastare il fenomeno, che colpisce lavoratori “irregolari” e “regolari”. Le nuove unità operative messe a disposizione dell’Ispettorato nazionale del lavoro, peraltro, non saranno operative prima del 2021. Tra chi beneficia di questa situazione spiccano i caporali e le aziende coinvolte nelle filiere di sfruttamento, in particolare nel settore agricolo. Si stima che siano tra 400mila e 430mila i lavoratori agricoli a rischio di ingaggio irregolare e sotto caporale e per più di 132mila di questi, l’incertezza sociale ed economica sarebbe molto forte (fonte Rapporto Agromafie e Caporalato – Osservatorio Placido Rizzotto Flai Cgil, 2018).

Gli anticorpi in campo sono limitati, a partire dagli strumenti di misurazione. “Il monitoraggio dell’attività di vigilanza condotta nel primo semestre di quest’anno –spiega ad Altreconomia Leonardo Alestra, Direttore dell’Ispettorato nazionale del Lavoro- indica come costante, se non in tendenziale aumento, il numero dei lavoratori in ‘nero’. Non essendo però per sua natura assoggettabile ad una effettiva tracciabilità, il lavoro ‘nero’ mal si presta ad una attendibile misurazione, sicché non è possibile stimare se il dato numerico sia alto o basso rispetto alla realtà del fenomeno”.

Per la prova dell’illecito sul lavoro nero, in teoria, al personale ispettivo dovrebbe bastare avere una conoscenza diretta dello svolgimento della prestazione lavorativa da parte di soggetti che non sono stati comunicati prima al Centro per l’impiego. “L’unica criticità -commenta Alestra- è legata al numero delle unità ispettive che è possibile impiegare per contrastare il fenomeno. Rispetto al passato non è possibile individuare particolari miglioramenti in questo ambito, semmai occorre segnalare il progressivo impoverimento delle risorse ispettive”. E aggiunge: “Per quanto recenti disposizioni di legge abbiano autorizzato l’assunzione di nuovo personale, le nuove unità ispettive non potranno essere effettivamente impiegate nella vigilanza se non dal 2021, al compimento delle procedure concorsuali e dopo un congruo periodo di formazione”.
Al 31 dicembre 2018, a condurre attività ispettive in materia di lavoro sono stati 2.496 ispettori del lavoro, 230 ispettori tecnici e 391 militari dell’Arma dei carabinieri. Pochi, se si pensa che il caporalato non colpisce soltanto i lavoratori “irregolari”, ma anche quelli “regolari”, o parzialmente “regolari”, caso, questo, in cui il lavoratore è formalmente assunto anche se il datore di lavoro ha denunciato all’Istituto previdenziale meno giornate rispetto a quelle effettivamente lavorate.

Diverse fonti aiutano a tracciare un quadro. Secondo il rapporto “Gli stranieri nel mercato del lavoro in Italia” del ministero del Lavoro, circa il 90% degli occupati nel settore agricolo risulta avere un contratto a tempo determinato. E –dati ISTAT– nel 2018 nel settore agricolo hanno operato circa 470mila lavoratori dipendenti, mentre la stima dei lavoratori irregolari si attesta intorno ai 164.000.
Su un totale di 116.846 attività ispettive in materia di lavoro condotte dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro insieme ai Carabinieri del Comando Tutela lavoro nel 2018, i lavoratori in nero (cioè quelli le cui prestazioni lavorative non sono state comunicate ufficialmente alle istituzioni competenti, né registrate nelle scritture contabili obbligatorie delle imprese) ammontano a 42.306. Si tratta di più del 40% del totale di lavoratori irregolari, cioè di lavoratori che non sono assunti con regolare contratto corrispondente alle effettive prestazioni di lavoro. Nel settore agricolo, in particolare, su 7.160 ispezioni, il tasso di irregolarità registrato è di circa il 55%. Dei 5.114 lavoratori irregolari, 3.349 sono risultati in “nero” e, tra questi, 263 cittadini extracomunitari privi di permesso di soggiorno. Una parte residuale, dunque. E qui si pone il tema delle denunce. Lo scorso anno risultano appena 299 le persone denunciate all’autorità giudiziaria per caporalato, e 56 di queste sono in stato di arresto.

“Appare del tutto evidente –chiarisce Eminia Sabrina Rizzi, operatrice legale dell’Associazione Gruppo Lavoro Rifugiati di Bari e socia dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)- che la previsione di una sanatoria per gli irregolari presenti sul territorio nazionale, e al contempo la previsione di meccanismi di ingresso regolare in Italia anche per motivi di ‘ricerca di lavoro’, insieme all’introduzione di una norma generale che riconosca alle persone il diritto di regolarizzarsi in presenza di un positivo percorso di inclusione sociale in Italia, inciderebbe in modo molto rilevante sul fenomeno”.

Le norme, del resto, ci sarebbero, ma la loro applicazione risulta ancora molto difficoltosa. Il Testo unico sull’immigrazione (all’art. 18, D.Lgs. 286/1998), per esempio, prevede la possibilità che sia rilasciato uno speciale permesso di soggiorno alle persone straniere vittime di situazioni di “violenza o grave sfruttamento” e che siano esposte ad un grave pericolo per la loro incolumità. In questo caso, il questore concede il permesso di soggiorno, che dura all’inizio 6 mesi, rinnovabile per un anno e convertibile in permesso di studio o lavoro, anche su proposta o con il parere del procuratore della Repubblica. Nel caso in cui la vittima dello sfruttamento cooperi nel procedimento penale (art 22), può ricevere dal questore il permesso di soggiorno (di sei mesi, e rinnovabile per un anno), questa volta su esclusiva proposta o parere favorevole del procuratore.

Il punto però è che i permessi di soggiorno rilasciati per art. 18 o art. 22 sono ancora oggi briciole. Secondo i dati del ministero dell’Interno, nel 2018 i cittadini extracomunitari che hanno ricevuto un permesso di soggiorno per sfruttamento in ambito di lavoro sono stati soltanto tre. Scendono addirittura a due quelli rilasciati alle vittime di sfruttamento in seguito a denuncia all’autorità giudiziaria, su un totale di 3.463.059 permessi di soggiorno. In linea con gli anni precedenti.

Con la legge 199/2016 contro il caporalato, peraltro, è stato reso sanzionabile non solo chi fa intermediazione illecita di mano d’opera ma anche chi la utilizza.
Le denunce per sfruttamento lavorativo, però, continuano ad essere pochissime, complici anche i tempi lunghi di rilascio del permesso, che scoraggiano chi è vittima di sfruttamento nell’esporsi alle possibili ritorsioni del caporale o del datore di lavoro stesso.
“Alla paura delle denunce -mette in chiaro Rizzi- si aggiunge la scarsa, parziale o inadeguata informazione in lingua per i lavoratori migranti; e, non ultimo, la distanza tra l’esigenza materiale dei lavoratori migranti, che è innanzitutto quella di ricevere la giusta retribuzione per il lavoro comunque svolto, e le procedure previste dal legislatore che, a seguito della denuncia, non prevedono alcun automatismo nel rilascio di un permesso di soggiorno che consenta di lavorare regolarmente. E, quando rilasciato, lo è a seguito dell’intervento della magistratura con tempi subordinati alle indagini”.

“Le procedure -continua Rizzi- risultano particolarmente complesse anche perché sono coinvolti vari attori, e cioè forze dell’ordine, servizi ispettivi del lavoro e procure della Repubblica. Le norme dovrebbero ancora essere migliorate garantendo innanzitutto protezione immediata a chi denuncia. Protezione che in realtà dovrebbe essere fornita a chiunque sia in condizione di sfruttamento, e non solo a chi decide di collaborare con l’autorità giudiziaria”. In questo solco si inserisce il Tavolo istituzionale per far fronte al problema del caporalato aperto il 16 ottobre scorso presso il ministero per le Politiche agricole, durante il quale è stata presentata una bozza del “Piano triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato”, ora in consultazione presso altre amministrazioni, nazionali, regionali e locali, parti sociali e organizzazioni del Terzo settore.
Dieci le azioni prioritarie individuate nella bozza del Piano: dalla messa a punto di un sistema informativo con calendario delle colture e dei fabbisogni di manodopera, agli interventi strutturali e agli investimenti in innovazione e valorizzazione dei prodotti; dal consolidamento della Rete del lavoro agricolo di qualità alla pianificazione dei flussi di manodopera e ad una maggiore trasparenza; dal miglioramento delle situazioni abitative, a quello dei trasporti. E ancora: maggiore attenzione alle campagne di sensibilizzazione e alla attività di vigilanza; un sistema di servizi integrati di riferimento per la protezione e la prima assistenza delle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura; il rafforzamento degli interventi per la reintegrazione socio-lavorativa.
Un metodo di ampio respiro che è poi lo stesso che ha animato la piattaforma “Rompiamo la catena dello sfruttamento lavorativo, liberiamo i diritti” presentata a settembre dalla Rete delle associazioni della provincia di Foggia, fra cui Anolf Puglia, Asgi, FLAI-CGIL e INTERSOS, nata con l’obiettivo di condividere informazioni e risorse in termini di accoglienza, supporto sociale, tutela sanitaria, sindacale e legale e fare muro rispetto al sistema di sfruttamento nella filiera agricola. Per debellare il caporalato non basta la sola attività ispettiva.

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