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Esteri / Varie

I dannati della megalopoli

Nel quartiere di Dharavi ci sono almeno un milione di abitanti, e 10mila imprese che operano fuori dalla legalità, ai margini ma dentro il sistema economico globale

Tratto da Altreconomia 169 — Marzo 2015

Per i mass-media è “lo slum più grande dell’Asia”. Per molti, è il set del film “The milionarie”. Per Matias Echanove, urbanista svizzero che vive e lavora qui da sette anni, è “un luogo di straordinaria complessità”. Il quartiere di Dharavi, a Mumbai, misura meno di due chilometri quadrati e conta forse un milione di abitanti. Forse, perché nessuno li ha mai censiti. “È impossibile. Arrivano, ripartono, non sono sempre gli stessi” sostiene Matias. Sta cercando di scardinare la percezione stessa di “slum”: “Una definizione che qui ha esclusivamente connotazione politica”. Gli insediamenti informali -è il ragionamento di questo esperto che ha studiato economia e pianificazione urbana a Londra, New York e Tokyo- dovrebbero essere considerati veri e propri “quartieri locali”. E non aree occupate illegalmente dalle fasce più povere o dalle caste meno abbienti. “Lo slum sta sempre fuori dalla porta quando si parla con chi ci vive”, aggiunge Matias. L’idea stessa di baraccopoli è respinta da chi abita questi spazi. Angusti, sovraffollati, insalubri, è vero.

Arrivando a piedi dalla stazione ferroviaria di Mahim Junction, un canale di scolo trasformato in un’orribile pozza nerastra e melmosa dai miasmi insopportabili è il perfetto cliché che accontenta subito lo stereotipo di baraccopoli. Ma esiste un’altra realtà. Per scoprirla, bisogna seguire un “reality tour”, una visita guidata promossa da una piccola organizzazione locale di Darhavi, che prova a far conoscere il volto vero dello slum.
A partire, appunto, da quello produttivo, con circa 10mila piccole imprese. L’idea della baraccopoli come “vuoto” economico e sociale si scioglie subito con le esalazioni velenose nella zona dei laboratori di solventi.Le latte di vernice sono lavate a mano e impilate ad asciugare. “Mi raccomando niente foto!” è l’invito di Savindas, una delle guide del “reality tour”. Ogni giorno decine di turisti stranieri arrivano qui. “Non è uno zoo, ma un percorso ragionato per mostrare come si vive e si lavora nello slum” spiega Savindas. Eccoci ora tra i vicoli dove la spazzatura informatica diventa plastica da riciclo.

Dietro una tenda si scorgono una dozzina di ragazzi accovacciati, i più giovani intorno ai 15-16 anni. Sono emigrati da zone rurali dell’India. Lavorano in condizioni spaventose. Illuminazione scarsissima, aria fetida, turni massacranti e pernottamento sul posto di lavoro (per risparmiare l’affitto). È una palese violazione di qualsiasi diritto. Ma per chi non ha alternative, è l’unica opzione. Ecco la zona delle concerie. Ancora fetori irrespirabili. Alcuni operai tagliano strisce di cuoio. Passando per Dubai, le cinture prodotte a Darhavi “legano” l’India all’Italia arrivando nei magazzini dei grandi marchi.
La conceria vomita i suoi residui velenosi nel solito canale di scolo. Eppure le baracche, qui, non hanno i bagni. Anche le toilette hanno un prezzo. Per fare la pipì, si pagano due rupie.  —
 

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