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I dannati chiusi nei centri

Da Gradisca d’Isonzo a Crotone, l’attenzione dei media sui Centri di identificazione ed espulsione. "I diritti umani riguardano la dignità della persona, e nei Cie si realizza una violazione sistematica della dignità della persona -dice ad Ae Pietro Marcenaro, ex presidente della commissione diritti umani al Senato-. Dunque, l’unica riforma possibile è chiudere -concettualmente ora, praticamente con il tempo che occorre- questo capitolo". 

Tratto da Altreconomia 151 — Luglio/Agosto 2013

Peggio delle carceri, per condizione e per principio. Sono i tredici Centri di identificazione ed espulsione presenti nel nostro Paese -da Trapani a Gorizia, da Milano a Roma-, strutture destinate al “trattenimento” dei migranti ritenuti “irregolari” (senza documenti, per intendersi), per i quali -una volta fermati e dopo la convalida del giudice- si aprono le porte della detenzione amministrativa, in prospettiva dell’esecuzione del provvedimento di espulsione.
A quindici anni dalla loro istituzione (al tempo del provvedimento Turco-Napolitano si chiamavano Centri di permanenza temporanea e assistenza, Cpta), il bilancio mostra ancora la loro debolezza. Sia nel rispetto dei diritti umani di chi vi transita (fino a un periodo massimo di 18 mesi), sia nel raggiungimento degli obiettivi di chi li ha voluti costruire a tutti i costi (tra il 1998 e il 2012 i rimpatriati sono stati il 46,2% dei trattenuti).
Ma se le carceri hanno conquistato l’attenzione pubblica, anche grazie alla denuncia del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ne pretese (nel luglio 2011) una soluzione immediata data la “prepotente urgenza”, i Cie non sembrano ricadere in alcuna agenda di governo.
Per questo, nel maggio 2013, l’associazione Medici per i diritti umani (Medu), che si occupa del tema dal 2004, ha pubblicato il rapporto “Arcipelago Cie” (Infinito edizioni), frutto di un’analitica ricerca lunga un anno condotta sul campo. A firmare la prefazione, l’ex senatore Pietro Marcenaro, già presidente della Commissione straordinaria per i diritti umani del Senato nella passata legislatura. La stessa commissione che, nel marzo 2012, ha votato all’unanimità il rapporto conclusivo dell’indagine conoscitiva centrata “sullo stato dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza e trattenimento per migranti in Italia”, dove è scritto che “le condizioni di vita nei centri sono precarie e inadatte”.

Senatore Marcenaro, nel testo introduttivo di “Arcipelago Cie” definisce i centri come l’ultimo anello di una catena di delitti contro i migranti. Catena che inizia con le morti senza nome nel Mediterraneo. La gestione dell’immigrazione è incompatibile con il rispetto dei diritti umani?
Per rispondere è necessario partire dal presupposto che violare i diritti umani significa violare la legge. Dunque se i Paesi rispettassero le norme che si sono dati, buona parte del problema sarebbe risolto. Il punto è che il tema non attira interesse: non che sia facile ridurre il numero delle morti nel Mediterraneo (oltre 18mila dal 1988 al novembre 2012 secondo l’osservatorio Fortress Europe, fortresseurope.blogspot.it, ndr) ma il problema sostanziale è che questo non è nemmeno preso in considerazione (per il massimo risultato o il minor danno a seconda dei punti di vista). Per giungere poi ai Cie, dove la detenzione si perfeziona in una condizione che è peggiore di quella carceraria, e non solo dal punto di vista pratico ma in linea di principio. In carcere, almeno in teoria, c’è un progetto che riguarda la persona (tralasciamo per un istante che si tratti di un concetto solo sulla carta); per quanto riguarda i Cie, invece, si tratta di abbandonare un soggetto ritenuto “irregolare” per 18 mesi, senza che questo serva a nulla, senza che nessuno si occupi di insegnargli qualcosa. È un tempo vuoto segnato dall’ansia, una situazione intollerabile sotto più ragioni. Vissuta peraltro in una promiscuità terribile, dove giovani con gli occhi ancora carichi di ingenuità condividono spazi con delinquenti incalliti, condannati magari per traffico di stupefacenti.

Un anello riformabile quello dei centri di identificazione ed espulsione?
Lo dico francamente: personalmente non escludo la necessità di strutture di questo tipo, ma non penso ci si debba arrivare tramite i Cie.
I Cie sono non-riformabili, così come la cultura politica che li ha originati. So che qualcuno si agita quando si usano queste parole, ma è una questione liberale: i diritti umani si difendono sia attraverso lo Stato sia contro lo Stato. I diritti della persona, esistono in quanto tali. I diritti umani riguardano la dignità della persona, e nei Cie si realizza una violazione sistematica della dignità della persona.
Dunque, l’unica riforma possibile è chiudere -concettualmente ora, praticamente con il tempo che occorre- questo capitolo.

Quanto incideranno sulle già “precarie e inadatte” condizioni di vita nei Cie le aste al ribasso per la gestione di queste strutture, che oggi non si discostano dai 30 euro al giorno per persona?
La gestione è diventata un business, dove girano un sacco di quattrini e chi fa queste aste difficilmente verifica la qualità del servizio fornito. Non c’è un’attività seria di vigilanza e la riduzione del canone pro die/pro capite accomuna i Cie alle carceri, dove il taglio delle prestazioni incide sulla corretta custodia, opportunità di lavoro, cure sanitarie. Lo dico perché ho visto persone con le cure dentarie interrotte a metà.

L’Europa è puntuale nel denunciare e sanzionare il nostro Paese in materia di carceri. In materia di Cie la Corte europea dei diritti dell’uomo è ancora in silenzio. Perché?
In tema di politiche migratorie l’Italia è stata più volte sanzionata dall’Europa, penso alla condanna per i respingimenti del maggio 2009. Sul resto va detto che l’Europa non ha tutte le carte in regola. Se uno guarda alla Romania, all’Ungheria, alla Bulgaria, o alla Francia di Sarkozy, comprende il perché di questa mancanza. Non mi pare che la questione dei Cie sia stata focalizzata a dovere, ma sono convinto che ci si arriverà presto. —
 

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