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Diritti / Attualità

I diritti dimenticati di 850mila lavoratori di H&M

Nel nuovo report “H&M: Le promesse non bastano, I salari restano di povertà” la Clean Clothes Campaign denuncia la mancanza di un salario dignitoso per i lavoratori della multinazionale in Bulgaria, Turchia, Cambogia e India. E chiede al gruppo di rispettare gli impegni assunti nel 2013 per un’equa retribuzione del lavoro

La fabbrica bulgara di Koush Moda, fornitrice di H&M. Foto di Georgi Sharov

“Per risparmiare compriamo vestiti usati, a volte sono di H&M”. Le contraddizioni dell’industria tessile globale stanno tutte nelle parole di una lavoratrice di Koush Moda intervistata dalla Clean Clothes Campaign.
Il gruppo tessile bulgaro Koush -che ha sede nella città di Burgas, affacciata sul Mar Nero- è uno dei casi studio approfonditi nel nuovo report di Abiti Puliti, “H&M: Le promesse non bastano, I salari restano di povertà”. Uno studio condotto intervistando 62 lavoratori di quattro paesi -Bulgaria, Turchia, India e Cambogia-, per verificare se le condizioni salariali in queste fabbriche si possano definire dignitose. Si tratta di una ricerca che parte dalla dichiarazione con cui il gruppo H&M annunciava nel novembre 2013 che tutti “i fornitori strategici di H&M dovranno adottare modelli retributivi tali da garantire entro il 2018 la corresponsione di salari dignitosi, un provvedimento che interesserà a quella data 850.000 lavoratori dell’abbigliamento”. Una citazione tratta dal documento “H&M’s roadmap towards a fair living wage in the textile industry”, di cui oggi non si trova più traccia sul sito della multinazionale.
“H&M ha riformulato il suo impegno dopo il 2013 e la promessa iniziale di un salario dignitoso non trova più spazio nelle comunicazioni aziendali”, denuncia la Clean Clothes Campaign, sottolineando nel report che “nessuno dei lavoratori intervistati percepisce un salario dignitoso”. Ovvero, che consenta di “provvedere alle esigenze fondamentali proprie e della famiglia” -dal cibo alla casa, dalla salute all’istruzione-, con un 10% in più di reddito per i risparmi o per le spese impreviste.

Nella fabbrica di Koush Moda in Bulgaria si lavora “12 ore al giorno, sette giorni alla settimana, senza ricevere il salario minimo legale previsto” e, all’epoca dell’indagine (svolta tra marzo e giugno 2018), “il numero di ore lavorate in straordinario alla settimana ammontava a 44”. I lavoratori con i redditi più alti ricevono circa 459 euro, “un livello insolitamente elevato” per un lavoratore bulgaro di questo settore, ma che comprende anche questi straordinari. “Rapportata a un normale orario di lavoro, la cifra si riduce a un netto di 174 euro, al di sotto del minimo legale di 204 euro” stabilito per legge.
In Bulgaria gli intervistati sono “pagati meno del 10% del salario dignitoso minimo per un normale orario di lavoro” e guadagnano “meno dei due terzi della soglia di povertà fissata dall’Unione Europea”, nonostante le 80 ore di lavoro alla settimana, senza alcuna maggiorazione per gli straordinari.
La ricerca è stata condotta su “un campione strategico” di lavoratori, come spiega Deborah Lucchetti di Abiti Puliti: “Abbiamo scelto dei fornitori primari del gruppo H&M, due in Asia e due in Europa proprio per far capire che si tratta di una questione globale”. Lo sfruttamento del lavoro nel settore tessile, infatti, “è trasversale e i dati dimostrano che negli anni la situazione in Turchia e Bulgaria sta peggiorando. Anche i mercati europei richiedono la nostra attenzione”.

In Cambogia, nelle fabbriche di Phnom Penh Eastex Garment Co. e Seduno Investment Cambo Fashion Co., il salario dichiarato è “quasi la metà del salario minimo”. In India alcuni lavoratori della Shahi Exports Private Limited di Bangalore -la principale azienda produttrice di abbigliamento in India, con un fatturato di oltre 850 milioni di dollari annui- sono pagati circa 0,57 euro l’ora.
In Turchia sono stati intervistati i lavoratori della Pameks Giyim, dove nel 2009 sono morte nove lavoratrici e dove oggi si vive in un clima di oppressione, nel quale i dipendenti faticano a parlare delle loro condizioni di lavoro e di vita. I lavoratori turchi e indiani intervistati percepiscono circa un terzo del valore minimo stimato per un salario dignitoso, e una parte degli intervistati percepisce il salario minimo legale solo se lavora in straordinario per completare la quota di produzione assegnata”: secondo la definizione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, si tratta di lavoro forzato.

Ma il gruppo H&M sembra non accettare critiche e replica dicendo di non condividere il punto di vista della Clean Clothes Campaign “sull’industria tessile e su come ottenere i migliori risultati”. “In primo luogo non esiste un livello universalmente accettato per i salari di sussistenza; in secondo luogo i livelli salariali dovrebbero essere definiti e fissati dalle parti nel mercato del lavoro, attraverso negoziati equi tra datori di lavoro e rappresentanti dei lavoratori, non da marchi occidentali”. E anzi, i portavoce del gruppo si dicono “orgogliosi e pienamente impegnati nel nostro lavoro in quest’area”, dimenticando tuttavia i precisi impegni assunti nel 2013.
Degli 850mila lavoratori non si parla più, mentre il gruppo ritiene di aver raggiunto una parte dei propri obiettivi. Da un lato, una maggiore rappresentanza dei lavoratori democraticamente eletti nelle fabbriche. “Finora (maggio 2018, ndr) abbiamo coperto più di 450 fabbriche (che rappresentano il 52% del nostro volume di prodotti) in diversi paesi (…), il che significa che più di 620.000 lavoratori sono ora rappresentati dai rappresentanti dei lavoratori”, si legge sul sito hm.com. Dall’altro, sostenere i loro principali fornitori nell’“attuare sistemi trasparenti di gestione dei salari”. “Il nostro obiettivo è quello di raggiungere questo obiettivo entro la fine del 2018 e siamo sulla buona strada per raggiungerlo. Questo è stato fatto finora in 227 fabbriche (che rappresentano il 40% del nostro volume di prodotti), raggiungendo 375.000 lavoratori”.

Dichiarazioni che la Clean Clothes Campaign considera “ingannevoli” rispetto ai fatti e prive di concreti risvolti positivi nelle vite di molti lavoratori che nelle fabbriche della filiera H&M ancora non hanno una retribuzione dignitosa. Continua perciò la campagna “Turn Around, H&M” (lanciata lo scorso maggio), coordinata dalla Clean Clothes Campaign e sostenuta dall’International Labor Rights Forum e da WeMove.EU, con la petizione per chiedere salari dignitosi e condizioni di lavoro giuste in tutta la catena di fornitura di H&M (si può firmare qui).

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