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Ambiente / Attualità

La morte annunciata di Hasankeyf, in Turchia, città millenaria sommersa dall’acqua e dall’ipocrisia

La cittadina turca di Hasankeyf - © Alberto Caspani

Gli antichi insediamenti sulle rive del Tigri sono stati evacuati, dopo aver spianato l’area per preparare il fondo al bacino di allagamento della diga Ilisu, titanica opera il cui impatto coinvolge anche 200 villaggi della zona. Il 9 ottobre l’inaugurazione della strada e del ponte che collegano il nuovo abitato con il resto della provincia, al confine con la Siria. I rischi per l’approvvigionamento idrico e le responsabilità dell’Unione europea

Inutile piangere ora. La sentenza di morte per la cittadina turca di Hasankeyf, culla della rivoluzione neolitica, è stata fissata ben prima della fatidica data del 9 ottobre 2019. Con l’inaugurazione della strada e del ponte che uniscono il nuovo abitato col resto della provincia al confine con la Siria, la battaglia contro la sommersione di uno dei siti archeologici più importanti al mondo volge verso l’esito cui è stata la stessa Europa a spingere. Indirettamente o meno, non è che una sottigliezza su cui oggi si preferisce glissare, addossando ogni responsabilità al governo turco o, ancor meglio, al “sultano” Erdogan. Basta cercare informazioni sul pronunciamento a riguardo della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo: l’unica istituzione che avrebbe potuto evitare il superamento del punto di non ritorno, ma sull’operato della quale non è mai stata sollevata alcuna protesta.

Nel nostro Paese è stata solo la Rete Kurdistan Italia a denunciare lo “scandaloso” voltafaccia del 21 febbraio scorso, dopo aver atteso una presa di posizione per ben 13 anni: “Nella sua decisione finale su un appello relativo al potenziale impatto della diga Ilisu sul sito archeologico di Hasankeyf  -è riportato nel comunicato stampa della rete- la Cedu ha dichiarato a maggioranza la richiesta inammissibile”. La motivazione addotta appare pilatesca. “La Corte ha notato che il graduale aumento della consapevolezza dei valori legati alla conservazione del patrimonio culturale e dell’accesso ad esso, abbia creato un certo quadro legale e che il caso in questione, di conseguenza, si può considerare ricadente in un’area tematica in evoluzione. In questo contesto e in vista degli strumenti internazionali rilevanti e della base comune nelle norme della legislazione internazionale, anche se questi non erano vincolanti, la Corte era pronta a considerare che esiste una percezione europea ed internazionale condivisa della necessità di proteggere il patrimonio culturale. Tuttavia, la protezione in genere si concentra su situazioni e regolamenti che attengono al diritto delle minoranze di godere liberamente della propria cultura e ai diritti delle popolazioni indigene di controllare e proteggere il loro patrimonio culturale. Di contro, non ha recepito, ad oggi, alcun consenso europeo o anche tendenza tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa, che potrebbe aver richiesto di mettere a rischio l’ambito dei diritti in questione o che avrebbe reso possibile dedurre dalla previsioni della Convenzione che esista un diritto universale individuale di una o di un’altra parte del patrimonio culturale, come richiesto nel caso di specie”.

Del tutto ininfluenti, dunque, le ripetute manifestazioni di protesta, le migliaia e migliaia di firme raccolte con una petizione internazionale promossa dal comitato “Save Hasankeyf” per l’inclusione dell’area fra i siti Unesco, al pari delle continue iniziative di sensibilizzazione messe in campo da 86 organizzazioni internazionali (coordinate attraverso la piattaforma hasankeygirisimi.net). Di nessun valore, in definitiva, l’appello alla Corte europea sottoscritto da cinque insigni cittadini turchi (due professori, un architetto-archeologo, un giornalista e un avvocato, ciascuno già parte dei progetti sul sito di Hasankeyf): le loro ragioni sono state considerate alla stregua della protesta di singoli individui, non di una minoranza o di una comunità. Del popolo curdo che vive nell’area e la rivendica, poi, nessuna parola.

Il risultato è oggi sotto gli occhi di tutti: gli antichi insediamenti sulle rive del Tigri e nelle caverne a ridosso del fiume sono stati evacuati, dopo aver spianato l’area per preparare il fondo al bacino di allagamento della diga Ilisu. Titanica opera ingegneristica il cui impatto disastroso non coinvolge solo Hasankeyf, ma circa 200 piccoli villaggi della zona, costretti a far spazio alla creazione di un lago artificiale con una superficie massima di 313 chilometri quadrati e un volume di 10,4 miliardi di metri cubi. Il tutto, per una spesa finale di circa 2 miliardi di euro, senza tener conto dei numerosi dietrofront, penali e rifinanziamenti che il progetto ha subito dal 1997 ad oggi (dopo l’avvio delle prime indagini addirittura nel 1954). Nonostante i rischi e gli ingenti costi da sostenere, la spinta in avanti è sempre giunta dalla disponibilità di aziende e banche europee a sostenere il progetto, a partire dalla svizzera Sulzer Hydro e dall’austriaca ABB Power Generation, oltre che dall’inglese Balfour Beatty, dall’italiana Impregilo e della svedese Skanska, pronte un tempo ad essere finanziate dalla banca UBS. Negli anni, attori e proprietà si sono fusi e rimescolati, tentando anche tardivi sfilamenti col montare della protesta civile, ma mantenendo sempre aperti i canali di dialogo tra il governo turco e quelli europei. Sarebbe infatti bastato un netto diniego alla prosecuzione per rendere insostenibile l’intero progetto, ma l’ambiguità mantenuta dall’Europa è esattamente la stessa che ha spinto la Cedu a non prendere posizione sino al febbraio 2019. “Anche se l’allagamento dovesse essere bloccato ora -ha riconosciuto Özge, sino a pochi anni fa titolare di una casa del té che si affacciava sull’antico abitato di Hasankeyf e oggi costretto dal governo alla ricollocazione- i danni apportati alla popolazione civile, così come al patrimonio archeologico e agli inestimabili monumenti storici dell’area di Hasankeyf, sono irrecuperabili. Nutriamo inoltre forti dubbi sull’efficacia della diga di Ilisu, condizionata dalla realizzazione di un secondo impianto di controllo delle acque a Cizre, attraverso cui garantire l’irrigazione di 121mila ettari di terra arida. Il cambiamento climatico in corso sta infatti riducendo la quantità di riserve a disposizione della regione”.

Iraq e Siria, e di riflesso le popolazioni curde che vivono al confine, hanno a loro volta denunciato il rischio di restare a corto di risorse idriche, proprio perché dipendenti dall’afflusso del Tigri e del suo bacino. Nel frattempo, nuove scoperte archeologiche continuano a gettare luce sulle origini dell’uomo: la più recente è avvenuta nel vicino sito di Kocaköy, presso il villaggio di Ambar, dove sono emerse ossa umane risalenti a un periodo compreso fra il 12mila e il 10mila avanti Cristo. Come aveva dichiarato prima della sua prematura scomparsa il professor Klaus Schmidt, scopritore sempre in zona dello straordinario sito di Goebekli Tepe, “il territorio orientale della Turchia, scarsamente esplorato e scavato, custodisce senz’ombra di dubbio fondamentali testimonianze sull’evoluzione della civiltà. Per riuscire a comprendere il significato dei pilastri totemici, delle figure antropoidi e delle enigmatiche geometrie di Goebekli Tepe, sarà perciò indispensabile allargare la ricerca a tutti i siti presenti nel suo raggio d’influenza”. Nel 2019, proclamato dal presidente Erdogan e dalla comunità internazionale “anno di Goebekli Tepe”, Turchia ed Europa hanno definitivamente sepolto gli ultimi resti per rispondere al grande mistero del più antico tempio dell’umanità. 

Per approfondimenti su Goebekli Tepe: https://madmagz.com/magazine/330781

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