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Esteri

Haiti ci riguarda

A un anno dal terremoto il Paese è una gigantesca baraccopoli. La popolazione sopravvive nelle tende, tra colera e collera. E le elezioni sono state una farsa

Tratto da Altreconomia 123 — Gennaio 2011

Sono accampati ovunque. Sulla grande piazza di Champ de Mars, davanti alle macerie del Parlamento. Sotto il rosone monco della cattedrale crollata, nel cuore della capitale. Negli anfratti nauseabondi di questa enorme città, tra rivoli di liquami putridi. Impossibile non vederli. Nessun Paese al mondo è popolato da oltre un milione di fantasmi come Haiti. Buona parte di loro s’aggira per Port-au-Prince.

Il terremoto del 12 gennaio 2010 ha provocato non solo dei senza-tetto, ma dei senza-terra. Da un anno questi sfollati non hanno casa. Né energia elettrica. Né acqua potabile. Né latrine decenti. Malgrado gli interventi pur indispensabili di centinaia di organizzazioni internazionali e governi stranieri, restano dei senza diritti. Questi profughi sono l’assurdo biglietto da visita di un paese dilaniato anche da profonde rivalità interne e vertiginose spaccature tra i pochi che possiedono molto e i molti che non hanno nulla. Col risultato che il passato coloniale avvolge in un abbraccio funesto l’instabilità politica del presente e la voracità delle élite al potere, stritolando gran parte dei dieci milioni di haitiani. Tornare qui dopo il devastante sisma (che ha ucciso non meno di 220.000 persone), significa anche imbattersi in un’epidemia di colera su vasta scala e nell’inquietudine post-elettorale. Mentre chiudiamo queste note, i brogli delle elezioni presidenziali e legislative del 28 novembre hanno già prodotto violenza diffusa, ancora una volta. Proteste e scontri, pneumatici bruciati e morti nelle strade.

Rhum e cliché. Un viaggio ad Haiti impone l’obbligo di provare a smontare i suoi consolidati cliché. A partire dalla comoda definizione di “Paese più povero dell’emisfero occidentale”. Un’etichetta più famosa di quella del rhum Barbancourt, che i giornalisti portano come bagaglio a mano risalendo sull’aereo, dopo aver raccontato la “solita” tragedia haitiana. Dietro l’etichetta, i dettagli da ricordare: mortalità infantile, accesso all’acqua potabile, qualità delle strutture sanitarie, alfabetizzazione, numero di medici per abitante. Il “Paese più povero dell’emisfero occidentale” non lo è diventato dopo il terremoto. Questa formula rinnega alcune origini storiche del disastro. A partire dalla richiesta avanzata dalla Francia nel 1825: 90 milioni di franchi per i mancati introiti dello sfruttamento coloniale. Un fardello che ha pesato per secoli sul debito pubblico di Haiti, anche per colpa dei prestiticapestro degli Stati Uniti d’America. Parigi si era accontentata di 80 milioni di franchi per la vendita della Louisiana (74 volte più grande di Haiti) agli Usa, il cui governo non riconobbe a lungo l’indipendenza di Port-au-Prince.

Oggi, a un’ora e mezza di volo da Miami, il 67% degli haitiani vive sotto la soglia di povertà, secondo dati ufficiali pre-sisma. Molti di più, secondo i dati empirici che l’occhio registra camminando -per esempio- tra le rovine di Boudron, il quartiere della capitale raso al suolo un anno fa. Tra le macerie ancora da rimuovere, ci sono anche i calcinacci della Storia. Ecco perché, dodici mesi dopo, è forse necessario rileggerne alcuni capitoli.

Le tende degli eroi. Henry ha sette anni e un pigiama a strisce. L’ennesimo obiettivo di una macchina fotografica fruga indiscreto nel suo risveglio. Gli adulti qui hanno perso la pazienza e a volte non lo tollerano più. Noi avevamo comunque chiesto ad Henry il permesso per uno scatto rubato all’alba, un fascio obliquo di luce ad accendere una camera da letto dalle pareti di plastica. Questo bimbo si lava i denti sul marciapiede. La sua “casa” è una tenda nel giardino pubblico di Place Boyer. Siamo a Petion Ville, il sobborgo nobile sulla collina che sovrasta la capitale. Ci si accampa persino sull’aiuola con la statua dell’eroe a cui è dedicata la piazza. Dai teli di colore “azzurro Onu” svetta il busto di Jean-Pierre Boyer, uno dei protagonisti della vittoriosa rivoluzione anti-schiavista e poi presidente dal 1818 al 1830. In questo parco pubblico bivaccano circa 6mila persone (nella centralissima piazza Campo di marte sono oltre 35mila). “Vedi le latrine? Nessuno le pulisce da due settimane” spiega Jean-Eduard Marc, il coordinatore dell’accampamento, eletto dagli abitanti. La disinfezione spetterebbe a un organismo internazionale che l’aveva finora assicurata. “La solidarietà spontanea sostituisce l’organizzazione, l’umore diventa una sorta di terapia di gruppo”, aveva annotato lo scrittore Louis-Philippe Dalembert in una corrispondenza per il Courrier International nei primissimi giorni dopo il sisma. La solidarietà non manca, unita a un’instancabile tenacia. Gli eroi moderni di Haiti non sono più i condottieri della rivolta dei neri contro la Francia di Napoleone, ma questi sfollati. Stanchi, disillusi ma ancora animati da un’incrollabile dignità. Che trova forma nel sorriso di chi esce da una tenda con la blusa pulita e la cartella per andare a scuola. O di chi vi resta tutto il giorno, magari aggrappato a una stampella. “La gente non vuole bere l’acqua distribuita, perché non ci sono controlli e abbiamo paura che sia  contaminata”, dice ancora il coordinatore Jean-Eduard. Al momento della nostra visita si contavano i primi 9 casi di colera. Sono oltre un migliaio gli insediamenti per sfollati. Alcuni tutt’ora privi di qualsiasi forma di assistenza, malgrado la puntuale e costosa mappatura dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni. Ne resta esclusa la tendopoli più incredibile di Haiti, quella allestita sullo spartitraffico dopo la località di Carrefour, fuori Port-au-Prince. Nuvole di polvere e gas di scarico. Una fila di tende si dipana sul cordolo tra le due carreggiate. Se nessuno supera il limite di velocità, qualcuno supera il limite della sopravvivenza.

Artibonite, la terra del virus. Per raggiungere l’epicentro dell’epidemia di colera, però, si deve viaggiare in direzione opposta. Nord-ovest. A sinistra compaiono le onde blu cobalto del mar dei Caraibi. Arriviamo nella regione dell’Artibonite, dove intorno ametà ottobre 2010 si sono registrati i primi casi di colera. Il bilancio dei morti è di oltre 3mila, purtroppo ancora parziale. Saint-Marc dista una novantina di chilometri. Sulla stradasi vendono banane e soprattutto canna da zucchero, l’oro dolce dei francesi. Per due secoli è stata la merce di lusso che ha reso felici -e ricchi- gli sfruttatori coloniali. Memoria amara, malgrado il sapore. Ecco l’ospedale. Appuntamento con la dottoressa Ximena di Lollo, argentina, responsabile del team spagnolo di Medici senza frontiere, arrivato per l’emergenza colera. Che ha messo in moto nuove carovane umanitarie, in un Paese dove già prima del sisma erano presenti oltre 400 organizzazioni non governative. All’ingresso della struttura un addetto ci disinfetta le scarpe. Si registrano circa 300 arrivi al giorno e 200 ospedalizzazioni. Nel reparto di pediatria una dozzina di bambini è sottoposta a idratazione con la flebo. “Prima di venire qui, mio figlio è rimasto quasi due giorni senza assistenza”, dice la mamma di un bimbo di 8 anni, il viso smagrito dalla diarrea. Il colera fa paura perché non lo si conosce. Si è subito diffuso lo stigma della vergogna. Meglio tacere che ammettere il contagio. Nel giardino dell’ospedale, Rosemonde, un’operatrice sanitaria, spiega le regole anti-colera. Mostra un cartellone con l’abc della prevenzione. Continua a ripetere che occorre soprattutto lavarsi le mani. Un gesto semplice che diventa impossibile  quando manca l’acqua. La magnitudo della povertà.

Un ponte oltrepassa il fiume Artibonite, l’untore di questa maledetta epidemia. Una ragazza vi è immersa, tra mucchi di rifiuti e un maiale pigro. Ecco perché il virus corre veloce. Un paio di curve più in là, si spalanca la piana scavata nel tempo dal corso d’acqua. Si vedono ampie coltivazioni di riso, una delle poche risorse naturali di una zona selvaggiamente depredata nei decenni scorsi. I guai sono stati combinati con gli interventi di  “aggiustamento strutturale” imposti dal Fondo monetario internazionale e l’aggiunta dello sfruttamento prepotente delle élite locali. In gran parte ormai queste terre sono incolte. Lungo la strada per Gonaives le casette di fango e lamiera, coi recinti di rami secchi, ricordano quelle viste in Mali o in Etiopia. A Villa, piccola località adagiata sullo stradone per la capitale, incontriamo Jeffrey. La canotta bianca lascia  scoperte spalle da pallanuotista. Parla spagnolo perché -come tanti emigrati haitiani- ha lavorato nelle piantagioni della confinante Repubblica domenicana. Che ha lo stesso cielo e lo stesso mare di Haiti, ma non la stessa povertà. Camminiamo insieme lungo una specie di acquitrino melmoso.Sotto questo  strato di acqua contaminata il colera sta proliferando alla grande. E tra queste baracche ha già ucciso almeno sei persone. Lo racconta una signora anziana, che lava i panni in un catino. Il Vibrio Cholerae è l’ultimo ospite indesiderato, preceduto da malaria e dengue. Il giovane Jeffrey si lamenta: così non è possibile vivere. “Possiamo anche resistere… ma non so fino a quando”.

Dal colera alla collera. L’altro virus che si è diffuso molto rapidamente è quello della frustrazione. Cova sotto le tende degli accampamenti. Ma anche dentro i canali di scolo su cui le venditrici di frutta appoggiano le loro mercanzie a Delmas 19, un popolare quartiere della capitale. I bambini, scalzi, giocano accanto alla fogna a cielo aperto. “Non sono tutti vittime dirette del sisma, ma sono le vittime della storia politica ed economica recente di Haiti” ci dice Laenneck Hurbon, sociologo e docente all’università di Port-au- Prince. Aggiunge che il presidente uscente René Préval e il suo governo sono stati lassisti. Non è il solo a pensarlo. La collera dei delusi è stata abilmente manipolata. Michel Martelly, controverso cantante amico dei potenti ai tempi del dittatore Baby-Doc Duvalier e molto popolare tra i giovani, s’è fatto portavoce dei poveri candidandosi alla presidenza. Non ha esitato ad aizzare la piazza a erigere barricate quando è stato escluso dal ballottaggio. Anche Wycleaf Jean, celebre rapper nato qui ma cresciuto negli States, avrebbe voluto tornare per guidare il Paese. Escluso dalla corsa elettorale per motivi anagrafici, all’indomani del voto ha convocato una conferenza-stampa a Port-au-Prince. Per dire in creolo, inglese e francese che non vuol vedere il suo Paese “andare in fiamme”. E per suggerire che i tre candidati più votati avrebbero dovuto accordandosi tra loro sulla vittoria, alla faccia della Costituzione. Il giorno prima, il 28 novembre, nei seggi avevamo visto centinaiadi persone escluse dagli elenchi  elettorali e dunque private del lorodiritto di scelta. E poi irregolarità ovunque. L’Onu e la  comunità internazionale speravano che il voto servisse per far partire finalmente la ricostruzione, finora del tutto inesistente. Ma dei 2 miliardi di dollari promessi dai donatori nel 2010, ne è stato stanziato solo il 37%, le cui tracce sono difficilmente visibili per chi si ferma ad Haiti una decina di giorni. “Viviamo sotto tutelainternazionale e questo deve finire” sostiene ancora il sociologo Hurbon. “La delusione per una  classe politica incapace di assumersi le responsabilità si è accentuata dopo il terremoto” ci aveva detto prima del voto Gotson Pierre, giornalista indipendente. Per Yanick Lahens, scrittrice, impegnata nella  lotta all’analfabetismo, la priorità è l’istruzione. La incontriamo mentre consegna una biblio-tenda in un  campo per sfollati, vicino a Leogane: “Non serve solo il cibo, ma anche nutrimento spirituale” spiega. 

Auspica che nella ricostruzione di Haiti ci si occupi anche di ristrutturare le relazioni. “Dobbiamo avere la  capacità di guardare in prospettiva e immaginare il nostro futuro”: è il pensiero di Dorval Patterson,  ex-magistrato. Oggi è direttore generale del Comune di Leogane, dove un anno fa l’80% degli edifici  andò in polvere. Gli operatori umanitari sfrecciano nelle loro “quattro ruote” con l’aria condizionata. Gli espatriati del business delle sciagure sono qui ormai in pianta stabile. Malgrado l’enorme impegno internazionale -non sempre proficuo- e il corrispondente stanziamento di denaro -compresi i corposi  stipendi del personale espatriato-, le condizioni della gente non sembrano cambiate rispetto a un anno  fa. Il popolo, stanco, “è pronto a dare battaglia”, come ha gracchiato a una radio locale uno dei candidati  alla presidenza. La violenza entra nel linguaggio, vola libera nell’etere e si propaga più velocemente del  colera. Resta in mente la smorfia del capo-tendopoli di Place Boyer: “Di giornalisti ne sono passati tanti. Nulla è cambiato per noi. Altro che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Ci considerano animali”.

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