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Greenpeace: in dieci anni le multinazionali si sono “mangiate” le foreste

Nonostante gli impegni promessi dalle aziende per contrastare la deforestazione, tra il 2010 e il 2020 rischiano di essere cancellati 50 milioni di ettari di foreste, un’area vasta quanto la Spagna. Al loro posto piantagioni di soia, palma da olio e allevamenti di bestiame

Indonesia, distruzione della foresta per fare spazio a piantagioni di palma da olio © Ulet Ifansasti / Greenpeace

Cinquanta milioni di ettari di foresta -un’area vasta quanto la Spagna- sono destinati a essere distrutti tra il 2010 e il 2020. Non si tratta di date scelte a caso: nel 2010, in occasione della Conferenza ONU sui cambiamenti climatici COP16 di Cancun, le multinazionali aderenti al “Consumer Goods Forum” (CGF), si erano impegnate a fermare la deforestazione attraverso l’approvvigionamento “responsabile” dei quattro prodotti più strettamente associati alla distruzione delle foreste su larga scala, ovvero olio di palma, pasta di legno e carta, soia e bovini.

Un impegno rimasto sulla carta, come denuncia Greenpeace nel report “Countdown to extincion”, pubblicato nei giorni scorsi. Nel periodo 2010-2015, infatti, la produzione agro-industriale di questi prodotti ha causato la distruzione di 30 milioni di ettari di foresta (pari alla superficie dell’Italia), concentrata quasi totalmente (al 95%) in America Latina e nel Sud-Est asiatico. Al momento non sono ancora disponibili dati consolidati per gli anni successivi, ma le informazioni attuali evidenziano come tra il 2016 e il 2018 la perdita di superficie boscata sia progressivamente aumentata -anno dopo anno- portando così la stima elaborata da Greenpeace a 50 milioni di ettari distrutti entro il 2020.

In Brasile l’area coltivata a soia è aumentata del 45% a partire dal 2010. Da quella stessa data la produzione di olio di palma indonesiano è cresciuta del 75% e l’impronta ecologica del cacao prodotto in Costa d’Avorio è aumentata dell’80%. E il peggio deve ancora venire, avverte Greenpeace: entro il 2050, infatti, è previsto un aumento del consumo di carne a livello globale del 76%, un aumento della produzione di soia del 45% e dell’olio di palma del 60%. Contestualmente cresceranno anche le emissioni di gas serra. Già oggi, infatti, l’agricoltura intensiva, l’abbattimento delle foreste per ricavare legname o terreno per allevare bovini sono responsabili di un quarto delle emissioni globali di gas serra. Secondo le stime di Greenpeace, in una situazione di “business as usual”, come se nulla dovesse cambiare, entro il 2050 le emissioni di gas serra saranno superiori del 77% rispetto al 2009. “Il messaggio della scienza è chiaro -sottolinea l’organizzazione nel suo report-. Nell’ottobre 2018 l’IPCC (Panel intergovernativo sul cambiamento climatico presso le Nazioni Unite) ha riconosciuto che la riforma del sistema alimentare per garantire la protezione delle foreste è un elemento essenziale nella lotta al cambiamento climatico”.

All’inizio del 2019, Greenpeace ha interpellato oltre 50 multinazionali (da Unilever a Nestlé, da Burger King a Cargill, Tesco e Carrefour) chiedendo loro di dimostrare i progressi fatti per contrastare la deforestazione, rendendo trasparenti le proprie catene di approvvigionamento di prodotti quali carne bovina, cacao, prodotti lattiero-caseari, olio di palma, polpa di legno, soia. Alle aziende è stato chiesto di divulgare i nomi dei gruppi di fornitori o dei produttori a cui si appoggiano, ma solo una piccola parte ha scelto di farlo, la maggioranza si è trincerata dietro accordi di riservatezza. “Nessuna azienda è stata in grado di dimostrare uno sforzo significativo per contrastare la deforestazione lungo la propria catena di approvvigionamento”, conclude il rapporto.

Il Cerrado brasiliano ospita il 5% di tutte le specie animali e vegetali del Pianeta. Si tratta di una delle aree più minacciate dall’agribusiness
© Marizilda Cruppe / Greenpeace

La coltivazione di soia, ad esempio, rappresenta la seconda causa di deforestazione a livello globale (preceduta solo dall’allevamento bovino) “tuttavia, nessun singolo marchio contattato da Greenpeace è stato in grado di dimostrare che stava monitorando la quantità di soia consumata come mangime animale nella sua catena di approvvigionamento, per non parlare del fatto che la fornitura di mangimi a base di soia stesse contribuendo alla distruzione delle foreste”, si legge nel report

Le conseguenze di questa inazione sono evidenti. E non solo in termini di impatto ambientale e climatico. Il Cerrado brasiliano -una regione vasta circa 200 milioni di ettari, nel cuore del Paese- ospita il 5% di tutte le specie animali e vegetali del Pianeta, di cui 4.800 vivono solo in questo delicato ecosistema. Inoltre rappresenta una vera e propria “culla delle acque”, perché è cruciale per otto dei dodici principali bacini fluviali del Paese. Nonostante il suo immenso valore ecologico, il Cerrado ha perso 2,8 milioni di ettari di foresta naturale e 1,8 milioni di ettari di praterie tra il 2010 e il 2017. La principale minaccia viene dalle coltivazioni di soia e dagli allevamenti di bestiame che avrebbero già distrutto 88 milioni di ettari di vegetazione naturale.

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