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Altre Economie / Reportage

Il grano della tradizione ritorna nei campi della Sardegna. Ed è “bio”

Si chiamano Trigu arrubiu, murru e cossu, e negli anni Settanta erano coltivati in aziende indipendenti, perché abituate a riprodurre le sementi. Pratiche di nuovo presenti sull’isola, da Cagliari all’Iglesiente, fino al nuorese. “I semi del futuro” è un progetto del Centro sperimentazione autosviluppo e di Domus Amigas

Tratto da Altreconomia 184 — Luglio/Agosto 2016
Il professor Salvatore Ceccarelli in uno dei campi del progetto “Semi di futuro” - © archivio Domus Amigas

Saludi e trigu. In Sardegna la salute la porta il grano, quello della tradizione locale, come il Senatore Cappelli. E la lingua dell’isola porta con sé il valore di questa storia di cereali e sovranità alimentare. “Quand’ero piccolo io dicevamo s’incungia, per indicare l’indipendenza di ogni azienda nel riprodursi i semi, il bene più prezioso”, racconta Giorgio, che a metà giugno sta aspettando la trebbia per mietere i grani del suo campo. Giorgio Deiana dell’azienda Agrifoglio nel Sulcis, da 35 anni in agricoltura, è uno dei contadini coinvolti nel progetto “I semi del futuro”, avviato nel 2014 dal “Centro sperimentazione autosviluppo” (Csa, nato da un gruppo di donne nel 1999, per “sperimentare l’autosviluppo partendo dai bisogni dell’ambiente e delle persone” del sud ovest della Sardegna) e Domus Amigas (www.domusamigas.it) con il professore Salvatore Ceccarelli.

Dal 2002 il Csa partecipa al miglioramento genetico partecipativo ed evolutivo delle varietà di grano e orzo, con l’obiettivo di “uscire dalla monocoltura del grano duro Creso -come spiega Teresa Piras-, a favore del grano Cappelli”, ottenuto dal genetista Nazareno Strampelli un secolo fa e storicamente coltivato in Sardegna, povero di glutine. Il Creso è invece una varietà moderna di piccola taglia (a differenza dei grani antichi che crescono più alti) e molto produttiva: è stata selezionata nel 1974 dal Cnen (ora Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) irradiando con raggi X la varietà Cappelli, e nei primi 10 anni era arrivata a coprire oltre il 25% di tutta la superficie a grano duro d’Italia. Dopo oltre 40 anni, secondo l’Enea, il Creso rappresenta ancora il 20% dei grani duri italiani. 

“Abbiamo iniziato guardando alla storia contadina sarda e distribuendo dei sacchettini che contenevano un pugno di semi, invitando a coltivare”, racconta Teresa. Riportare i semi in campo è l’obiettivo di questo percorso, che ha la particolarità di avvalersi della collaborazione con le agenzie di ricerca regionali. In Sardegna ce ne sono tre: Laore (Cagliari), che si occupa dell’assistenza tecnica; Agris (Sassari), per l’innovazione e la ricerca; e Argea (Cagliari), che segue i finanziamenti (www.sardegnaagricoltura.it). A partire dalla presa di coscienza che “la biodiversità si conservava nei centri di ricerca, ma non si coltivava più nei campi”, il Csa ha preso contatti con Agris e Laore, che dal 2012 hanno fornito rispettivamente una piccola quantità di semi di varietà tradizionali e il supporto tecnico per la parte agricola.

 

20% la superficie italiana a grano duro coperta dal Creso, una varietà molto produttiva selezionata nel 1974

“Siamo partiti da poche file di spighe e da piccoli orti familiari, per sperimentare l’adattamento e riprodurci il seme”, racconta Teresa. Poi, grazie all’ingresso in Rete Semi Rurali (www.semirurali.net e seedversity.org), dal 2014 ha intrecciato nuove relazioni con chi, anche in altre zone, porta avanti la selezione partecipativa dei cereali. “Accanto ai tradizionali grani sardi -i duri Trigu arrubiu e murru, il tenero Trigu cossu-, abbiamo seminato grani siciliani come il duro Timilìa, o Tumminìa”, avuto da Giuseppe Li Rosi di Terre Frumentarie (Raddusa, Ct), “e anche una miscela di grani teneri”, nei campi dell’azienda biodinamica “Su treulu biu” di Masainas (Ci), nel Sulcis. Altri due campi si trovano nell’azienda biologica Agrifoglio di San Giovanni Suergiu (Ci) e nel bioagriturismo Tupei a Calasetta (Ci): 40 piccoli “fazzoletti di terra” di 12 metri quadri ciascuno, seminati nell’autunno del 2015, per 14 diverse varietà di grano duro e tenero, i miscugli di tutte le varietà e l’orzo, di cui 29 varietà per uso zootecnico, 15 da malto -coltivate a Samassi (Ca)- e l’orzo nudo per l’alimentazione umana. “Abbiamo seminato anche i primi campi di miscugli di grano duro e tenero -racconta Teresa-. Tra i miscugli di orzo ne abbiamo uno, costituito da Salvatore Ceccarelli nel 2008 in Siria, con 1.600 varietà provenienti da tutto il mondo e ora coltivato da cinque anni in Molise”. A Samassi (Ca), nell’azienda agricola Marcello Mancosu, 100 metri quadrati sono la piccola ma preziosa misura dedicata alla selezione delle varietà di orzo da birra “adatte al nostro clima e ai nostri terreni”, spiega Marcello. Non esiste, infatti, una varietà già selezionata per la Sardegna, quindi ci vuole la pazienza di aspettare “ancora un paio d’anni, per avere dei risultati e fare le prove per la produzione della birra”. Per Marcello è anche una strategia di diversificazione dell’azienda di famiglia, che ha sempre coltivato cereali con il metodo convenzionale e che lui ha convertito a biologico. Infatti, “ci sono molti microbirrifici, ma è difficile trovare del malto biologico e proveniente da una filiera sicura”.

La trebbia che sta aspettando Giorgio a San Giovanni Suergiu, invece, raccoglierà grano per fare pane. “Puliamo il raccolto, lo maciniamo a pietra e a settembre la impastiamo e cuociamo nel nostro forno a legna”, dice. I campi catalogo del progetto “I semi del futuro” sono stati scelti in zone vicine, ma con terreni molto diversi -fertili a Masainas, sabbiosi a Calasetta e poveri a San Giovanni Suergiu-, per vedere come si adattano i grani. “Il Trigu cossu è la varietà che ci stupisce di più: è un grano tenero molto resistente alla siccità e anche quest’anno che non ha mai piovuto ha dato una buona resa”, spiega Giorgio. La bellezza dei miscugli è proprio questa, che “anche in condizioni climatiche estreme riesci sempre a raccogliere qualcosa”. Un poco si trasforma e quel che resta si conserva per la semina successiva, come un tempo: “s’incungia”.  

180 chilometri più a Nord, a Nuoro, un’altra realtà, Semene, sta lavorando per tutelare la sovranità alimentare a partire dai cereali. “Dopo anni di impegno nel mondo della piccola agricoltura biologica e della filiera corta, con l’associazione Biosardinia, con un amico veterinario, Pietro Fois, ci siamo trovati a pensare che il 70% della nostra alimentazione è fatta di pane e pasta”, spiega Maurizio Fadda di Semene, agronomo. Da qui l’idea di ripartire dal grano che “da ottant’anni non si coltiva più attorno a Nuoro, a favore dei cereali dell’Est Europa”. 

Nata alla fine del 2015, Semene ha acquistato in forma collettiva un mulino a pietra semindustriale, di legno, che macina circa 30 chili di farina all’ora. 90 soci (oggi Semene ne conta 140) hanno messo una quota per arrivare a coprire il costo del mulino, circa 6mila euro, diventando comproprietari e al tempo stesso aspiranti mugnai: “Acquistiamo il grano Cappelli da un’azienda agricola biologica di Serri (Ca) e lo maciniamo”. 
Per imparare, Maurizio e Pietro sono stati in alcuni mulini del nuorese e poi hanno guidato il “gruppo aspiranti mugnai” di Semene nella macinatura dei grani, che si fa una volta ogni 10 giorni. “Accanto al mulino abbiamo uno spazio per stoccare i grani, lavarli e asciugarli”. La farina viene poi donata ai soci, che hanno diritto a 20 chili in un anno. “È una farina che dobbiamo anche imparare a usare, perché è diversa dalle farine bianche a cui siamo abituati e richiede un altro tipo di lavorazione”, spiega Maurizio. Sta anche in questo l’importanza di fare comunità attorno alla buona agricoltura, per tramandare saperi e scambiare conoscenze utili nel quotidiano. “Il seme che vogliamo coltivare sta soprattutto nella testa delle persone, perché capiscano che un’alternativa è subito praticabile, collettivamente e facendo rete con i contadini, i Gas, le associazioni”.

Nell’autunno 2015 l’associazione ha seminato a mano 1.500 metri quadrati di frumento Cappelli, nel campo messo a disposizione da un agricoltore; sarà falciato a mano, per avviare poi una filiera di trasformazione. “Dobbiamo arrivare a capire insieme cosa coltivare, come trasformare e chi può acquistare questi prodotti. Manca ancora, infatti, una rete di acquisto solida, anche se sono molti i soggetti attivi”. A partire da una piccola comunità di vicinato, Semene guarda così alla costruzione di un Distretto di economia solidale, “nel quale fare rete e lavorare insieme per la tutela della sovranità alimentare nel nostro territorio”.

In dettaglio

LA LEGGE DEL PANE
È stata votata all’unanimità lo scorso marzo dal Consiglio regionale sardo la legge sul pane (4/2016), “Disposizioni in materia di tutela della panificazione e delle tipologie da forno tipiche della Sardegna”. Si regola così un settore che conta circa 1.050 imprese (erano oltre 1.100 nel 2014) e 4mila addetti, per 350 milioni di fatturato annuo. La legge istituisce un “apposito contrassegno regionale che attesti la vendita del pane fresco”, il “Registro regionale delle specialità da forno tipiche della tradizione della Sardegna” e un tavolo tecnico composto da assessorati, agenzie regionali ed esperti del settore “con il compito di elaborare apposite strategie di intervento dirette a agevolare, assistere ed incentivare i produttori locali” verso l’ottenimento delle denominazioni di origine protetta, delle indicazioni geografiche protette e delle specialità tradizionali. L’articolo 10 della legge regionale sottolinea inoltre la “valorizzazione della filiera sarda”, attraverso “accordi o programmi di filiera” che “prevedono la partecipazione di tutti i soggetti coinvolti, tra i quali agricoltori, produttori, panificatori, molitori, rivenditori e consumatori finali”.

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