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Diritti

Gli F-35 sono ancora milionari

Nel 2016 prevista una spesa di 630 milioni di euro, così come per 2017 e 2018: nessun taglio o riduzione, come chiesto dalle mozioni parlamentari 2014. Permane la grande opacità nei dati e nelle stime messe a disposizione (con ritardo) di Parlamento ed opinione pubblica. Già erogati 3,8 miliardi di euro

Nel 2016 l’impatto totale del programma di armamento JSF (quello dei cacciabombardieri F-35) per il nostro Paese sarà di 630 milioni di euro. Circa 50 milioni di euro in più della quota previsionale dello scorso anno (ma quasi il doppio di quanto effettivamente speso, come vedremo) e di certo senza il dimezzamento evocato da alcune delle mozioni parlamentari sulla ormai annosa questione votate nel 2014. La diminuzione decisa rispetto alle ultime programmazioni pluriennali disponibili, vecchie di due anni perché nei documenti 2015 nessuna previsione era stata formulata, è infatti di circa 100 milioni di euro e non di più.

Le cifre sono ufficiali e sono riportate nel “Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa per il triennio 2016–2018” predisposto dal Ministero della Difesa e trasmesso a fine aprile dalla ministro Roberta Pinotti alla presidenza della Camera dei Deputati. Solo oggi, ad oltre un mese di distanza, ne stanno girando alcune copie in sede parlamentare e Altreconomia ha potuto prenderne visione.
Questo Documento è
fondamentale per comprendere appieno la spesa militare italiana, perché vi vengono riportate e dettagliate le dotazioni finanziarie della Difesa (e delle quote di fondi MiSE destinate ad acquisizioni armate) così come votate nella Legge di Stabilità. O, sarebbe meglio dire, così come “decise al buio” dal Parlamento. Perché a deputati e senatori, oltre che ovviamente all’opinione pubblica, i dettagli veri sulla spesa militare e in modo particolare sull’approvvigionamento di armi giungono -come abbiamo visto- con mesi di ritardo, anche se il loro voto è chiesto subito.
Ed è davvero impossibile darlo con piena cognizione di causa
senza i numeri, i dati, i dettagli e le linee programmatiche così come espressi nel DPP. Un meccanismo tutt’altro che virtuoso a cui non sembrano porre rimedio né le nuove norme di finanza pubblica né la riorganizzazione della Difesa impostata con il recente “Libro bianco”.
 

Il DPP per il Triennio 2016-2018 andrà dunque analizzato sotto molti aspetti, ma già ad un primo sguardo appare centrale lo spazio destinato al discusso programma dei caccia F-35. E alcuni paragrafi sembrano scritte quasi appositamente come replica e giustificazione alle critiche piovute addosso al JSF negli ultimi anni.
Un esempio? Quest’anno è sparita dalla scheda riassuntiva (ne esiste una per ciascun programma di armamento in corso) la dicitura
“oneri complessivi stimati in circa 10 miliardi di euro” relativamente alla fase di acquisto. Un riferimento sempre presente in passato e che Altreconomia aveva già messo in evidenza per sottolineare che le indicazioni parlamentari per un dimezzamento 
di tali costi erano state completamente ignorate. Al posto di tale dato viene fornita una cifra di 2,8 miliardi di euro relativa agli “oneri complessivi sostenuti al 2016” che appare del tutto sottostimata, perché non comprende -se non in nota- i costi della fase iniziale di sviluppo SDD e -soprattutto- dimentica i circa 1.200 milioni di euro spesi dall’Italia per la costruzione dell’impianto di Cameri. In realtà considerando la serie storica degli stanziamenti previsionali (e pur applicando la riduzione a consuntivo sul 2015 esplicitata, caso unico, in questo DPP) si arriva ad un totale di cassa già erogato di 3,8 miliardi di euro. In linea con le stime da sempre fornite dalla Campagna NO-F35 e pur senza considerare gli impegni già sottoscritti con l’Ufficio di Programma JPO negli USA, che andremo comunque sicuramente a pagare nei prossimi anni.


L’apparente mossa di trasparenza sul Programma F-35, cui nel DPP appena diffuso viene dedicata per la prima volta ed eccezionalmente rispetto ad altri sistemi d’arma una scheda specifica di quattro pagine, sembra dunque piuttosto un grande tentativo di “giustificazione” di scelte poco chiare e non conformi al dettato Parlamentare. Sicuramente è uno sforzo di risposta alle critiche della società civile e di alcuni settori della politica che da tempo lamentano una grave mancanza di trasparenza e di dettaglio su tutta la questione JSF. Che si tratti di una operazione di giustificazione lo si percepisce dal tono dello scritto ma, ancora di più, dalla selezione e riclassificazione “ad hoc” dei dati proposti, come abbiamo appena visto. Ad esempio, mancando diversamente dal passato una cifra relativa alla spesa di acquisizione complessiva, solo con le Tabelle della Legge di Stabilità che arriveranno in autunno sarà possibile verificare il dimezzamento di tale impatto. Oppure, come più probabile, il mantenimento dei circa 10 miliardi da sempre previsti, in barba alle mozioni parlamentari. Sempre che il Ministero della Difesa abbia la cortesia di riportare tali Tabelle, anch’esse sparite dai documenti in qualche caso negli anni passati.

Le quattro pagine di allegato dedicate ai caccia offrono comunque diversi spunti interessanti, che è opportuno analizzare in quanto forniscono fondamento a critiche avanzate per anni da chi si è opposto all’acquisto degli F-35. Un grande spazio viene utilizzato per raccontare la storia del progetto dal 1998 ad oggi, mentre si cerca di far passare con poche parole come voluto dalla Difesa, in seguito alle mozioni parlamentari, una rimodulazione “in fasi” dell’acquisto che invece è già naturale per l’impostazione generale del Programma. E’ già così anche per gli Stati Uniti e le loro migliaia di velivoli previsti. Risulta così anche fin dall’inizio della partecipazione italiana, come evidente leggendo i Memorandum of Understanding sottoscritti in passato dal nostro Governo. Si è da sempre parlato di fasi, e i cambiamenti effettivi avvenuti dipendono molto di più dai ritardi di sviluppo, produzione e raggiungimento delle capacità operative degli aerei che da un voto alla Camera nell’autunno 2014. Questo rallentamento figlio soprattutto di condizioni esterne viene spacciato nel DPP come “riduzione di spesa sul programma” di circa 1 Miliardo di Euro ma è in realtà, come facilmente si comprende, solo uno spostamento di costi su Bilanci dello Stato futuri. Un processo già iniziato con la riscrittura dei piani di acquisizione dopo il taglio (in quel caso effettivo) deciso nel 2011-2012 dal Governo Monti, ben prima delle mozioni parlamentari 2014 e dalla revisione strategica prevista con il percorso del Libro Bianco.  

Peraltro rinominare “Fase 1” di acquisto quella del triennio 2016-2019 quando la partecipazione iniziale è datata al 1998 e i primi contratti per aerei italiani sono del 2012 (ad oggi abbiamo già comprato oltre il 10% del totale previsto) è una scelta di parole che oscilla tra l’ironia e la provocazione. Così come poco rispettosa della cronologia appare l’attribuzione al piano di acquisizione 2016-2019 dei “risparmi” (in verità anch’esse delle semplici dilazioni) avvenuti sul 2015 a consuntivo di spesa. Il dato fornito (che dichiara contribuzioni effettive pari a 370 milioni di euro al posto dei previsti 582,7) è comunque importante per la sua natura definitiva e non meramente previsionale. Sarebbe davvero opportuno, come già ampiamente richiesto in passato dalle campagne disarmiste, che questo anche questa tipologia di numeri venisse fornita ogni anno e non solo episodicamente. Si potrebbe così impostare una valutazione più precisa dell’impatto finanziario del programma F-35 (e di tutti gli altri programmi di armamento) anche perché è del tutto probabile, come dichiarato dallo stesso Ministero in sede di Legge di Stabilità, che di norma le cose vadano nel senso opposto: aumento e non diminuzione di costi a consuntivo (stiamo qui parlando della spesa militare in generale, non in particolare del JSF). Per il 2017 e il 2018 il DPP esplicita previsioni di spesa di 634 e 627 milioni di euro, rispettivamente. Cifre simili all’appostamento per l’anno corrente e soprattutto in linea con i profili di acquisizione già pensati in passato e senza dunque eccessive riduzioni o impatti verso un dimezzamento. Come se si fosse ormai raggiunta una stabilità a regime dopo un paio di anni di navigazione a vista resasi necessaria per assorbire le nuove impostazioni decisionali e soprattutto i già ricordati ritardi operativi del Programma.   

Sorvolando sulla incongruenza riproposta ancora una volta rispetto al numero complessivo di velivoli che la nuova flotta F-35 dovrà andare a sostituire (non sono certo 254 come riportato, lo abbiamo già smentito tre anni fa…) si arriva poi alla parte dedicata ai ritorni industriali ed occupazionali. Un aspetto tra i più aspramente dibattuti nel recente passato. Di nuovo viene buttata sul tavolo la stima di circa 14 miliardi di dollari per i “ritorni industriali per tutta la vita del programma”. Un dato la cui origine e derivazione non è mai stata chiarita ed esplicitata, ma che si tramanda da anni -in maniera quasi mitica- nei documenti ufficiali della Difesa.

Il DPP fornisce invece un’inedita valutazione (attestata su 1,8 miliardi di dollari) dei ritorni già conseguiti; dato molto maggiore rispetto alle più recenti dichiarazioni disponibili di Lockheed Martin ma la cui origine e giustificazione, ancora una volta, è avvolta nel mistero. Non si sa da quali aziende, su quali contratti e lavorazioni, per quanto tempo e soprattutto da quali cifre venga ricavata tale somma. La parte più corposa dei ritorni industriali deriverà, come si conosce da tempo, dagli accordi intercorsi tra Alenia Aermacchi e Lockheed Martin (l’assemblaggio e la manutenzione, evocati ogni volta come strategici, saranno marginali in termini finanziari assoluti). Nel DPP appena uscito si esplicita ufficialmente, forse per la prima volta, che l’accordo quadro originale per la produzione di un certo numero di assiemi “corpo-ali” (il cosiddetto cassone alare o Full Wing derivante dai sottoassiemi "Wing Carry Through" e "Outer Wing Box") era dipendente dal volume di acquisto delle Forze Armate italiane. I 1215 assiemi alari erano stati promessi solo con garanzia di acquisto di almeno 100 velivoli da parte del nostro Paese. Per questo motivo ora il Ministero della Difesa lamenta una riduzione proporzionale a 835 degli assiemi che Lockheed Martin chiederà a Finmeccanica, a causa della decisione di riduzione del Governo Monti. Un tentativo di giustificazione che fa ancora più danni.

Perché se la situazione era davvero questa come si è potuto per anni sbandierare l’accordo come un riconoscimento del valore tecnologico e produttivo della nostra industria? No sarebbe stato più onesto parlare di una “partita di giro”…? Tralasciando il fatto che, se davvero la soglia per mantenere tutte le possibili commesse era a 100 aerei, il Governo Monti ha commesso davvero un errore madornale a scendere poco al di sotto di tale livello (sarebbe bastato mantenerne 10 in più!). Ma l’aspetto più grave è un altro: cercare di presentare l’accordo (ed un lettore poco attento ci potrebbe cascare in pieno) come se riguardasse produzioni effettive e non solo ordinativi previsti e quindi solo possibili. Non sicuri. Tanto è vero che i contratti effettivamente sottoscritti da Finmeccanica ad ora riguardano poco più di 100 assiemi alari, senza garanzia per le altre centinaia di cui si è parlato con Lockheed Martin. Per cui i 3,2 miliardi di dollari in volume di opportunità industriale venuto meno secondo la Difesa nel DPP rimangono comunque nell’ambito delle cifre potenziali e non sicure. Mentre invece i circa 6 miliardi di euro risparmiati (a prezzi correnti del velivolo) con la decisione di eliminare 41 aerei dal piano di acquisto sono una cifra che si sarebbe dovuta spendere realmente. Trovando in qualche modo i soldi nei Bilanci dello Stato (e già in questi ultimi 3-4 anni). 

Ancora una volta, dunque, i dati vengono proposti in maniera parziale, non verificata e verificabile e confondendo cifre di natura completamente diversa. Così come avviene per i numeri relativi al ritorno occupazionale. Si parte dalla favola dei 10.000 posti di lavoro millantati nel 2008 ai 6.400 che sarebbero generati dalla situazione attuale. Entrambi i numeri derivanti da stime Finmeccanica/AIAD, cioè da chi ha più interesse nel far percepire un ritorno positivo, con il secondo che sembra piuttosto un riscalamento proporzionale del primo sulla base del nuovo profilo di acquisizione. La chiarezza nella derivazione delle stime è sempre scarsa ma soprattutto, nonostante le critiche elevate in passato, non si esplicita se ci si riferisce a posti di lavoro “pieni” (cioè occupati completamente su F-35 o solo parzialmente) e per quanti anni. Pur essendo già in fase di produzione abbastanza a regime secondo il DPP nel 2015 la quota di occupazione sostenuta dal programma JSF è stata solo di circa 1.200 posti di lavoro.

Come sarà possibile arrivare a 6.400 (oltre 5 volte tanto!) potendo contare solo sul “fabbisogno produttivo e manutentivo della flotta italiana” che non aumenterà di molto dal tasso attuale (secondo quanto scritto nello stesso DPP, una contraddizione dunque!) e dalla evocata manutenzione dei 500 velivoli nell’area mediterranea (da quando?) è un mistero che nessuno si è preso la briga di spiegare. Forse perché si tratta, invece, di un segreto di Pulcinella… Come tutto il Programma italiano per i caccia F-35 che, tralasciando le problematiche generali del JSF, appare in ogni Documento ufficiale come sempre più raffazzonato e mal gestito. Con un vulnus politico e di controllo (parlamentare e dell’opinione pubblica) importante: in tutto il testo del Documento di Programmazione Pluriennale si richiama a parole la coerenza con le mozioni della Camera dei Deputati del 2014, ma non vengono forniti i dati concreti che permetterebbero di verificarla. E ciò è molto più grave dei costi e dei problemi, comunque rilevanti, del Programma dei caccia F-35.

 

 

 

 

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