Diritti / Attualità
Gli aiuti della Flotilla continuano via terra: “Vietati miele e biscotti a Gaza”
Sono partiti da Genova 12 container con 240 tonnellate di aiuti alimentari, per un valore di circa 700mila euro, raccolti in una mobilitazione straordinaria ad agosto dalla Ong Music for peace, diretti in Giordania e da lì nella Striscia di Gaza. Ma il carico è a rischio anche per le nuove regole israeliane di registrazione delle organizzazioni e i divieti di importare cibo calorico, ma anche sapone e felpe per bambini. Nonostante il “cessate il fuoco”
La Global Sumud Flotilla non si è fermata a poche miglia da Gaza, anche se è stata “sequestrata” dalla Marina israeliana in acque internazionali, ma insieme alla Ong genovese Music for peace sta di fatto continuando la sua missione via terra.
Sono infatti partiti da Genova 12 container con 240 tonnellate di aiuti alimentari, per un valore di circa 700mila euro, raccolti in una mobilitazione straordinaria ad agosto, diretti in Giordania e da lì nella Striscia di Gaza. Ma il carico è a rischio anche alla luce dei recenti rifiuti del governo israeliano e nonostante il fragilissimo cessate il fuoco. “Il nostro governo ha detto che bastavano pochi giorni per far arrivare gli aiuti a Gaza -racconta Stefano Rebora, presidente di Music for peace- ma sono quasi due mesi che aspettiamo di ricevere tutti i permessi”. Nonostante questo, con lo stesso spirito della Flotilla -muovendosi cioè nel rispetto del diritto internazionale, obbligando chi invece non lo fa a uscire allo scoperto- gli aiuti sono partiti per Gaza.
Riavvolgiamo un po’ il nastro. Il primo ottobre 2025 le barche della Flotilla, con centinaia di attivisti da tutto il mondo e 45 tonnellate di aiuti genovesi, vengono intercettate e, a una a una, condotte al porto israeliano di Ashdod, mentre gli attivisti vengono espulsi o incarcerati. “Io lo definisco un sequestro illegale, un furto, forse, perfino, perché avvenuto in acque internazionali, mentre non stavamo commettendo alcun crimine e a bordo c’erano solo farmaci e aiuti alimentari”, denuncia Maria Elena Delia, portavoce italiana del Global movement to Gaza. “Non abbiamo evidenza di dove siano le barche e gli aiuti -continua- ma sicuramente a livello internazionale avvieremo un procedimento legale per chiederne la restituzione, visto che ci appartengono”.
Sia Delia sia Rebora erano sulle barche ma entrambi hanno deciso di tornare in Italia, per seguire le trattative per la Flotilla l’una e per il corridoio di terra l’altro: la maggior parte dei beni alimentari raccolti a Genova, infatti, non era a bordo.
“Da quando sono tornato mi sono relazionato esclusivamente con la Farnesina -spiega Rebora- che ci ha messo in contatto con la Jordan Hashemite Charity Organization (Jhco), l’organizzazione che gestisce il transito degli aiuti attraverso la Giordania”. Da allora però la questione non è molto progredita, soprattutto a causa di uno stop legato al contenuto dei pacchi.
“Durante una call con altre Ong e la Farnesina -prosegue Rebora- la Jhco ci ha riferito che il materiale ad alto contenuto energetico, specialmente per donne e bambini, non può entrare e che quindi miele, biscotti e zucchero vanno tolti dai pacchi. Ovviamente ci siamo opposti, abbiamo chiamato la Farnesina, che ci ha consigliato di non focalizzarci su quello, che si poteva risolvere. Ma di fatto a oggi non abbiamo uno straccio di permesso”.
A riprova di quanto detto, Rebora ha degli screenshot dei messaggi scambiati con i partecipanti alla call. A non permettere l’ingresso del cibo energetico sarebbe, secondo i giordani, il Cogat, cioè il Coordinamento dell’esercito israeliano delle attività relative agli affari civili nei Territori palestinesi. “Quel tipo di pacco entra a Gaza dal 2009, perché oggi non dovrebbe poterlo fare, a maggior ragione davanti a una carestia?”, si chiede Rebora. Secondo la “Panoramica delle richieste rifiutate” pubblicata da Unops, l’ufficio delle Nazioni Unite dedicato alla supervisione dei progetti e dei servizi forniti dalle agenzie Onu, a settembre 2025, risultavano 481 richieste per mandare aiuti umanitari a Gaza bocciate dal Cogat dal 9 luglio 2024 e 433 quelle nei primi nove mesi del 2025. Il picco di 123 rifiuti è stato a luglio, mentre a gennaio, quando c’è stata la tregua, sono stati “solo” nove. I dineghi sono arrivati soprattutto alle Ong internazionali (76%), seguite dalle agenzie delle Nazioni Unite (16%) e dalle Ong (8%). A essere respinti sono stati soprattutto prodotti legati alla logistica e alle telecomunicazioni (29%), alla salute (25%), cibo (16%), materiale di ricovero (10%), prodotti per l’igiene (8%), educazione (2%), protezione (2%) e altro (8%). Tra i materiali di ricovero rifiutati ci sono maglie, pantaloni, calzini, sandali, pigiami e felpe per bambini. Ma è nella categoria cibo che effettivamente compaiono miele e biscotti. Mentre in quella dei prodotti per l’igiene sono stati negati sapone, dentifricio, spazzolini e creme solari.

Infine, sempre secondo i dati delle Nazioni Unite, i rifiuti sono quasi per la metà (44%) dovuti al fatto che le organizzazioni non sono state autorizzate o alla politica israeliana che regola gli ingressi degli aiuti (22%). Nel 2024 è stata modificata la normativa di registrazione delle Ong che operano nei territori palestinesi occupati e anche quelle già operative da anni si devono ri-registrare presso il ministero israeliano per gli Affari della diaspora e sottoporre a una valutazione, secondo “criteri arbitrari e politicizzati”, scrivono 55 Ong internazionali in un documento in cui chiedono alla comunità internazionale di intervenire. Il sostegno al Bds, il movimento per il Boicottaggio le sanzioni e il disinvestimento nei confronti di Israele, per esempio, da parte del personale, di un partner o un membro del Cda può costare lo stop a tutta la Ong. “Queste misure non solo compromettono l’assistenza nei Territori palestinesi occupati, ma creano anche un pericoloso precedente per le operazioni umanitarie a livello globale”, scrivono le Ong.

Anche Rebora è contrario. “Perché dovremmo farlo, se siamo registrati a Ramallah e non dobbiamo operare in Israele? -chiede-. Dobbiamo solo transitare per entrare dal valico di Kissufim”. Ma se questo volesse dire perdere il carico? Secondo Rebora non ci sarebbero le motivazioni e se così fosse “a quel punto, dovrebbe essere il governo italiano a intervenire. Hanno detto che in tre ore facevano entrare tutto con un paio di telefonate. Dove sono le telefonate?”.
“Ci hanno raccontato che c’è una tregua e che a Gaza la situazione è cambiata con il piano Trump -aggiunge Delia- quindi gli aiuti dovranno poter entrare. Se non sarà così, significa che qualcosa del racconto non è vero, quindi è anche un test molto importante. Perché degli aiuti umanitari dovrebbero avere un’autorizzazione? Forse perché bisognerebbe togliere da quei pacchi gli alimenti troppo energetici? Allora chiediamoci che problema c’è a dare del miele o dei biscotti ai bambini di Gaza?”. Music for peace, che opera nella Striscia dal 2009, chiede inoltre di poter entrare e consegnare direttamente i pacchi alle Ong partner, già accreditate, con la supervisione del proprio direttore operativo locale. E se dicessero che li fanno entrare, ma che se ne occupano loro, gli israeliani? “Non possiamo permettergli di fare i carnefici e i dottori”, taglia corto Rebora, che ricorda come le 300 tonnellate di cibo siano state consegnate da centinaia di migliaia di italiani, verso i quali la Ong e la Global Sumud Flotilla si sentono responsabili.
Nell’attesa dei prossimi sviluppi, che fine farà la missione che è stata capace di mobilitare solo in Italia milioni di persone? “Il progetto della flottiglia si è concluso con il rapimento e poi il rilascio degli attivisti, ma il Global movement to Gaza e gli altri movimenti che l’hanno costruita, continuano il lavoro -spiega Delia-. A livello italiano ci stiamo riorganizzando, perché nel frattempo siamo cresciuti in termini numerici. Continuiamo a lavorare sulle mobilitazioni contro il riarmo di guerra, contro questa finanziaria, contro la complicità del nostro governo con lo Stato israeliano nel genocidio. E non è detto che non ci siano altre missioni”. Il focus resta internazionale, ma “dobbiamo vigilare anche su quello che accade qui -continua- perché, se come ha detto qualcuno, la Palestina è una lente di ingrandimento per leggere il mondo, lo è anche per il nostro Paese”. Nel frattempo, sono stati presentati due esposti alla Procura di Roma da parte dei legali degli italiani della Flotilla: il primo, a carico di ignoti, relativo all’attacco notturno con droni militari e il secondo per sequestro in acque internazionali.
“È stata una detenzione basata sul nulla -chiosa Delia- con la negazione del diritto alla difesa e della fornitura di servizi fondamentali, come acqua, cibo e farmaci salvavita, negati a chi ne aveva bisogno, oltre a trattamenti disumani delle persone detenute in carcere. Per noi il diritto conta sempre, non solo fino a un certo punto: vogliamo capire se anche Israele, come tutto il resto del mondo, deve rispettare la legge oppure no. E se no, vogliamo capire perché e ce lo devono spiegare molto bene”.
© riproduzione riservata





