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Diritti / Reportage

Siamo tornati nella Piana di Gioia Tauro, tra i braccianti senza casa

Una suora della parrocchia di San Ferdinando distribuisce cibo nella zona dei capannoni abbandonati dell’area industriale del porto di Gioia Tauro - © Federico Annibale

Nulla sembra cambiato dalla rivolta di Rosarno del 2010: migliaia di persone anche quest’anno sono giunte per la stagione agrumicola, in condizioni abitative e igieniche precarie. L’esempio virtuoso del piccolo comune di Drosi

Tratto da Altreconomia 194 — Giugno 2017

Drosi, frazione di Rizziconi, è un paesino di 800 abitanti a 8 chilometri da Gioia Tauro, in provincia di Reggio Calabria. Da sette anni qui si sta sperimentando un tipo di accoglienza al migrante diversa dalla gestione istituzionale ed emergenziale dei braccianti stagionali stranieri. Il progetto è gestito dalla Caritas di Drosi e Ciccio Ventrice è uno dei coordinatori. “Abbiamo dedicato tempo, anima e tanta fatica nel offrire un tipo d’accoglienza dignitosa e di cuore”.

Il progetto è semplice, spiega Ciccio: “Noi fungiamo da garanti, troviamo le case assicurando che l’affitto venga pagato -anche solo 50 o 40 euro al mese, ovviamente è una cifra simbolica-. Siamo partiti con 3-4 di case, sistemando così una trentina di persone; poi, piano piano e con molto impegno, siamo arrivati, ad oggi, a 150 persone tra Rizziconi e Drosi”. I migranti che hanno trovato alloggio in questi due paesi sono in maggioranza braccianti nella raccolta delle arance e delle clementine della Piana di Gioia Tauro. Provengono per lo più dall’Africa Occidentale: Mali, Senegal, Ghana, Nigeria, Burkina Faso, Liberia. La Piana di Gioia Tauro è un’area agricola largamente sfruttata e rappresenta un settore cruciale dell’economia reggina. Le aziende che lavorano nel settore agrumicolo (arance e clementine) sono circa 5.200, dislocate su 11.300 ettari di terreno agricolo con una produzione di 213.000 tonnellate di arance e 56.000 di clementine (dati Ismea 2015). Le clementine finiscono nelle tavole di tutta Italia e del resto d’Europa; le arance vengono usate soprattutto per la trasformazione in succhi concentrati, mentre una parte è destinata al consumo al dettaglio.

È difficile stimare quanti siano i braccianti stagionali che lavorano d’inverno nella raccolta agrumicola. Stando ai dati del rapporto annuale “Dignità e diritti violati nel ghetto più grande d’Italia 2017” del progetto “Terra Giusta” presentato da Medu (Medici per i diritti umani – una ong che presta soccorso sanitario e legale ai braccianti della Piana), l’80% dei braccianti della Piana non ha un contratto di lavoro regolare. La CGIL stima che siano 4mila i braccianti stagionali che arrivano in quest’area. Le condizioni di lavoro dei braccianti africani sono state spesso denunciate da Medu, Flai CGIL, USP (Unione sindacale di base) e Cobas. I braccianti prendono tra i 25 e i 30 euro al giorno lavorando anche più di dieci ore. Cifre ben lontane dal minimo sindacale di circa 40 euro al giorno ed orari di lavoro ben oltre le 6 ore e 40 minuti stabiliti dal contratto collettivo nazionale di lavoro per gli operai agricoli e florovivaisti.
A ciò si aggiunge una condizione abitativa disastrosa: la stragrande maggioranza dei lavoratori agricoli stranieri vive in tendopoli, baracche o casolari abbandonati, sprovvisti di qualunque tipo di servizio minimo essenziale.

Nel febbraio 2016 era stato firmato un protocollo fra istituzioni e associazioni del territorio. Ancora oggi non esiste però nessun tipo d’intervento di lungo periodo

Questa misera condizione di vita, nonché lavorativa, fu la scintilla che fece scoppiare la rivolta di Rosarno nel gennaio del 2010. Scene di violenza e guerriglia urbana che contrapponevano i calabresi ai migranti. “Dopo quei fatti -racconta Ciccio- c’erano tanti ragazzi africani buttati in strada. Non sapevano cosa fare e dove andare. Quella rivolta aveva cambiato tutto, ma non aveva risolto alcun tipo di problema. L’emergenza abitativa rimaneva lì davanti ai nostri occhi. Allora noi della Caritas di Drosi ci siamo detti ‘Dobbiamo far qualcosa!’”.

Quella di Drosi, comunque, rimane un’esperienza limitata: perché il progetto non viene replicato in altri contesti permettendo a tutti di godere dei benefici di una casa? “Senza un’istituzione che si faccia garante e intermediario è difficile. La gente non si fida. E non credo che la politica ne abbia l’intenzione. Nessun sindaco della Piana è venuto a vedere quello che facciamo”.

Uno dei container del “campo” nel Comune di San Ferdinando - © Federico Annibale
Uno dei container del “campo” nel Comune di San Ferdinando – © Federico Annibale

E allora la maggioranza dei lavoratori africani vive al Ghetto di San Ferdinando (uno dei comuni della Piana). Il rapporto annuale di Medu è stato presentato il 12 aprile 2017 nella sala consiliare del Comune. Il quadro che esce fuori è tutt’altro che rassicurante: il ghetto di San Ferdinando è diventato un vero e proprio villaggio fatiscente. Qui, dentro baracche fatte di teli di plastica e pali di legno, vivono più di 2.000 persone in condizioni igienico-sanitarie a dir poco critiche. “I dati che abbiamo raccolto ci dicono una cosa molto chiara” afferma Giulia Chiacchella medico di Medu. “La gente del ghetto si ammala a causa delle condizioni in cui vive. Addirittura, quest’anno, visto l’inverno estremamente rigido, abbiamo avuto casi di congelamento dei piedi. Queste sono cose che nel 2017 non si dovrebbero vedere”.

Oltre al ghetto, in un capannone abbandonato dell’area industriale del porto di Gioia Tauro, vivono 500 persone. Un grande casolare abbandonato della Piana funge da riparo per altre 200; un campo container, sempre nel comune di San Ferdinando, ne ospita altri 300 ed altri piccoli poderi in rovina forniscono ripari isolati per gli altri lavoratori agricoli. “Neanche in Africa viviamo così” mi confida Abdul, un bracciante senegalese che presto se ne andrà a Foggia per la stagione del pomodoro.

Insieme a Mamadou Dia, mediatore culturale di Medu, entriamo nel capannone industriale. Non c’è corrente né i bagni o alcun tipo di servizio. Il luogo è circondato da montagne di rifiuti che nessuno raccoglie e allora i topi, dopo il tramonto, scorrazzano fra i materassi e le coperte ammassate dentro lo stabile. “Io sono 20 anni che vivo in Italia. Prima lavoravo al Nord, come metalmeccanico. L’anno scorso mi hanno licenziato, così sono venuto qua” racconta un lavoratore camerunense di 45 anni mentre svuota un secchio di rifiuti sul piazzale del capannone. “Qui, dove viviamo, fa schifo. Ho provato ad affittare una casa, una stanza, ma non ci sono riuscito, la gente del posto non me l’affitta”.

“Le autorità continuano a parlare di emergenza. Ma sono sette anni che esiste questa situazione! Qui l’unica emergenza sono le persone che vivono con i diritti negati”

Ce ne andiamo dal capannone per entrare nel ghetto. Il campo si trova nell’aerea industriale del porto di Gioia Tauro, una zona dove non c’è anima viva, a parte qualche bracciante africano che va o viene dai campi in bicicletta; qui, la maggioranza dei capannoni e dei magazzini costruiti per il porto è chiusa, abbandonata. “Non si può parlare d’integrazione con le baraccopoli, con la gente se vive così lontano dal centro abitato, dalla socialità” dice Mamadou mentre camminiamo. “La gente deve stare nei paesi per integrarsi. Il prefetto e le autorità continuano a parlare di emergenza, gestiscono il problema sempre come un’emergenza. Ma sono sette anni che esiste questa situazione! Qui l’unica emergenza che esiste sono le persone che vivono con i diritti negati”.

Il capannone abbandonato dell’area industriale del porto di Gioia Tauro: vi hanno trovato dimora almeno 500 persone - © Federico Annibale
Il capannone abbandonato dell’area industriale del porto di Gioia Tauro: vi hanno trovato dimora almeno 500 persone – © Federico Annibale

Secondo uno studio dell’Università di Firenze, in Calabria il 40% del patrimonio residenziale sarebbe vuoto; addirittura 90mila sarebbero gli edifici inutilizzati e quasi un milione le stanze vuote. La sola provincia di Reggio Calabria, avrebbe 26.500 costruzioni vuote e poco meno di 300.000 stanze anch’esse vuote. Restringendo ancora di più il campo a Gioia Tauro, sarebbero 320 gli edifici inutilizzati. Ciononostante, esistono una serie di motivi oggettivi che rendono impossibile per un bracciante africano affittare una casa. Prima di tutto è la condizione di lavoro nero in cui versa l’80% dei lavoratori agricoli; è quasi impossibile per la maggioranza dei lavoratori firmare un contratto d’affitto senza possedere un contratto di lavoro e quindi senza alcuna garanzia.

320 sarebbero gli edifici inutilizzati nella sola zona di Gioia Tauro, secondo una ricerca dell’Università di Firenze

“Io non vorrei vivere qua” ci confida Faal, un lavoratore maliano che abita nel ghetto “sto cercando casa, ma la gente non me l’affitta”. Mentre ce ne andiamo via dal campo, Mamadou ci tiene a spiegare una cosa “La ghettizzazione dei braccianti migranti e la loro condizione di totale precarietà, serve ad uno scopo. Si vuole creare questa situazione per mantenere il costo della manodopera basso e competitivo. Questo lo sappiamo tutti e nessuno fa nulla”. 

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