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Ambiente / Approfondimento

La Germania brucia ancora carbone. E la transizione rischia di incepparsi

Gli attivisti dell'associazione ambientalista tedesca Ende Gelande hanno organizzato una manifestazione di protesta contro una cava a cielo aperto di lignite © Ende Gelande

A gennaio 2020 il Paese ha adottato un piano governativo per uscire dall’era del carbone entro il 2038 e favorire il definitivo passaggio alle rinnovabili. Ma l’esecutivo ha autorizzato l’avvio di una nuova centrale

Tratto da Altreconomia 228 — Luglio/Agosto 2020

A protestare contro l’avvio della centrale a carbone di Datteln 4 nell’Ovest della Germania, a fine maggio, gli ambientalisti non erano i soli. Oltre a loro c’erano anche gli operai delle miniere di antracite chiuse nel 2018. Vicini fisicamente ma non alleati: gli uni contrari a una nuova centrale, unica in Europa occidentale, appena pochi mesi dopo il piano governativo di gennaio 2020 per uscire dall’era del carbone entro il 2038. Gli altri arrabbiati per aver dovuto lasciare il loro lavoro in miniera, sicuro e ben retribuito, mentre la Germania continua a bruciare antracite proveniente dall’estero. In un Paese che ha legato fortemente il suo sviluppo economico al carbone, la transizione energetica verso fonti a ridotte emissioni tocca la società nel profondo. Il governo lo sa bene e per dire addio al combustibile fossile, uno dei più pericolosi per il clima, a giugno 2018 ha avviato la “Commissione per la crescita, il cambiamento strutturale e l’occupazione”, composta da politici, scienziati, ambientalisti, rappresentanti dei lavoratori e dell’industria. L’obiettivo dichiarato era “sviluppare un ampio consenso sociale” concentrandosi su nuovi posti di lavoro “a prova di futuro”, ma l’esecutivo ha disatteso una delle raccomandazioni principali espresse dalla Commissione nella sua relazione finale (bmwi.de).

Quella che prevedeva di evitare la messa in funzione di nuovi impianti a carbone se si volevano raggiungere gli obiettivi climatici. Così, mentre nel 2018 si è registrato lo storico sorpasso delle rinnovabili sul fossile in termini di elettricità generata (secondo i dati dell’istituto di ricerca Fraunhofer 41% contro 37%, energy-charts.de), quest’ultimo gioca tuttora un ruolo importante per la Germania. Il Paese ha la più alta capacità installata a livello europeo per produrre elettricità dal carbone con 44,5 GigaWatt secondo il Global energy monitor, a cui va aggiunta la nuova Datteln 4 da 1,1 GW. Molto più dell’Italia (8,6 GW) e del Regno Unito (9,7 GW) ma anche della Polonia (30,8 GW), il Paese europeo oggi maggiormente attivo su questo fronte. Secondo la campagna Europe Beyond Coal, in Germania questa fonte di energia genera oltre il 26% delle emissioni di gas serra contro una media europea del 15% (beyond-coal.eu).

Dal carbone nel 2019 è arrivato un terzo dell’elettricità generata: il 20% dalla lignite e il 10% dall’antracite. La prima è la fonte di energia tedesca a più alta intensità di emissioni di CO2, mentre la seconda ha un più elevato potere calorifico. La distinzione ha senso perché il piano per uscire dal carbone prevede, salvo novità a seguito di Covid-19, due strade diverse per le due tipologie. Per l’antracite verrà attuato un sistema di aste in cui gli operatori candidano gli impianti per la chiusura volontaria e chiedono in cambio indennizzi, ricevendo un bonus per la capacità che scollegano dalla rete. Per le centrali rimanenti, nel momento in cui si scrive si prevedono poi dal 2027 chiusure forzate. Nel 2018 le ultime miniere di antracite sono state chiuse e quella necessaria a far andare avanti industrie e centrali rimaste (compresa Datteln 4) viene importata. Discorso diverso per la lignite: secondo anche quanto previsto dalla Commissione di esperti e parti sociali, lo Stato tedesco pagherà agli operatori compensazioni concordate in anticipo per spegnere le centrali, per oltre quattro miliardi di euro.A questi, spiega da Greenpeace Germania l’esperta di clima ed energia Lisa Göldner, vanno aggiunti “40 miliardi di supporto finanziario per le regioni minerarie per diversificare l’economia. Altri cinque miliardi saranno sussidi di accompagnamento alla pensione per i lavoratori in età più avanzata impiegati nell’industria del carbone. In totale, comprese le compensazioni, il governo tedesco pagherà quasi 50 miliardi di euro per uscire dal carbone”.

Nel frattempo la Germania deve liberarsi anche dal nucleare. Dopo l’incidente di Fukushima, nel 2011 il governo Merkel ha spento otto reattori e si è impegnato a chiudere i nove rimanenti entro il 2022. Il legittimo piano di uscita dall’atomo, da cui nel 2019 è venuto il 14% dell’elettricità generata nel Paese, non sembra però essere stato un buon affare per l’ambiente e i cittadini per come è stato attuato. Un’analisi di gennaio 2020 dell’Università di Berkeley mostra che “la produzione di energia nucleare persa per le chiusure è stata rimpiazzata primariamente con la produzione di energia dalla combustione di carbone e con importazioni nette di elettricità. I costi sociali del passaggio dal nucleare al carbone valgono circa 12 miliardi di dollari all’anno. Oltre il 70% sono relativi a un aumento del rischio di mortalità associato all’esposizione al locale inquinamento atmosferico emesso quando si bruciano combustibili fossili”. Tuttavia Pao-Yu Oei, scienziato del gruppo di ricerca CoalExit dell’Università politecnica di Berlino, non ha dubbi: “Un’uscita combinata dal nucleare entro il 2022 e dal carbone entro il 2030 è possibile con un rapido aumento delle rinnovabili. La Germania deve accelerare la sua transizione energetica per raggiungere idealmente il 100% di energia da fonti rinnovabili al 2040”. Al momento la strada imboccata sembra un’altra anche perché, spiega l’avvocato ambientale della Ong ClientEarth Ida Westphal, “l’Ue non chiede agli Stati un’uscita dal carbone ma fissa obiettivi climatici vincolanti che probabilmente saranno accentuati. E qui la Germania sta rimanendo indietro.

La miniera di carbone di Garzweiler in Germania © Malcom Kretz – Flickr

Per rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi c’è bisogno di un abbandono totale del carbone a livello europeo entro il 2030: il 2038 è troppo tardi”. Il Paese punta a ridurre le sue emissioni di gas serra di almeno il 40% entro il 2020, 55% entro il 2030 e tra l’80% e il 95% al 2050, rispetto ai livelli del 1990. Questi tetti di emissioni, che Greenpeace ritiene “datati”, si traducono in obiettivi per i diversi settori. Per la Commissione di esperti e parti sociali però “è altamente probabile che l’industria energetica manchi i suoi obiettivi di settore al 2030 senza misure aggiuntive”. Tra quelle raccomandate c’era appunto la rinuncia a Datteln 4. “La commissione -direi giustamente- ha consigliato al governo di non cominciare il percorso di abbandono del carbone avviando una nuova centrale. Mentre questa raccomandazione non era legalmente obbligatoria, il governo ha detto più volte di sentirsi vincolato dal rapporto della commissione, ma poi ha fatto l’opposto.

Chiedere le opinioni degli esperti e poi ignorarle è segno di cattivo governo”, aggiunge Westphal. L’intera operatività di Datteln 4, secondo un’analisi dell’Istituto tedesco per la ricerca economica, porterà a un aumento complessivo di emissioni pari a circa 40 milioni di tonnellate di CO2. Questo perché mentre le aste verranno usate per chiudere le centrali più vecchie, Datteln 4, per la sua alta efficienza, funzionerà per molte più ore con il massimo del carico. “Nei prossimi cinque anni, a seguito delle chiusure volontarie pianificate e dell’entrata in funzione di Datteln 4, Uniper punta a ridurre ulteriormente le sue emissioni di CO2 del 40% pur mantenendo la sicurezza della fornitura ai consumatori e le comunità che serve”, si legge in una nota dell’operatore che gestisce la centrale. La maggioranza delle azioni di Uniper è detenuta da Fortum, società controllata dal governo finlandese (fortum.com). Le polemiche non sono mancate: mentre la Finlandia punta alla neutralità climatica entro il 2035 e ha bandito il carbone dopo il 2029, all’estero non segue gli stessi criteri. “Comprendiamo le preoccupazioni delle persone e concordiamo che il carbone deve essere abbandonato e le emissioni ridotte. Nonostante questo, la transizione verso una società a ridotte emissioni deve avvenire senza compromettere la sicurezza della fornitura o un costo sostenibile dell’energia, in modo socialmente giusto”, si legge in una nota di Fortum diffusa alla vigilia dell’avvio di Datteln 4.

Per Lisa Göldner di Greenpeace, “chi vuole guidare l’azione climatica non si può fermare ai propri confini”. Superarli, come del resto fa la stessa CO2, potrebbe avere effetti positivi per tutti, anche per gli operai delle miniere chiuse che hanno protestato davanti a Datteln 4: oggi, conclude Göldner, “l’industria del carbone impiega circa 28mila lavoratori, quella delle rinnovabili 300mila”.

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