Diritti / Attualità
“Genocidio di Gaza: un crimine collettivo”. Il nuovo rapporto di Francesca Albanese
La Relatrice speciale delle Nazioni Unite denuncia, dati e fatti alla mano, le numerose complicità degli Stati con Israele in questi due anni, sottolineando il doppio standard della comunità internazionale. Dalla copertura diplomatica alle forniture militari (Italia in prima fila), dagli affari economici ed energetici fino al tradimento dello spirito umanitario. Ecco che cosa dice il report che pure il governo italiano ha tentato di delegittimare
A fine ottobre è stato diffuso l’ultimo rapporto della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967, Francesca Albanese, intitolato “Genocidio di Gaza: un crimine collettivo”. Sottolineando la precarietà del sistema del diritto internazionale, il lavoro di Albanese denuncia il carattere “partecipato” dei crimini commessi a Gaza per conto di Israele, sostenuti dalla complicità di Stati terzi e quindi legittimati dalla “comunità internazionale”. Il rapporto identifica nello specifico quattro modalità di supporto: diplomatica, militare, economica e “umanitaria”.
Facendo riferimento a casi in cui il diritto internazionale si è rivelato efficace nel contrastare l’apartheid, Albanese mette in luce un doppio standard della comunità internazionale.
La prima sezione, intitolata “Genocidio sotto le spoglie di azioni diplomatiche e politiche”, mostra come dopo il 7 ottobre 2023 numerosi capi di governo occidentali abbiano ripetuto le narrazioni israeliane, riportando affermazioni false, cancellando la distinzione tra civili e combattenti e riducendo i palestinesi a “terroristi” o “scudi umani”. Anche tra le urgenti richieste di un cessate il fuoco, i Paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, hanno sostenuto solo “corridoi umanitari”, “pause” e “tregue”, trattando la situazione come una crisi umanitaria da gestire, piuttosto che un’ingiustizia da prevenire e poi reprimere.
Dal 2023 gli Stati Uniti hanno posto ripetuti veti al Consiglio di sicurezza dell’Onu, bloccando il cessate il fuoco e garantendo copertura diplomatica a Israele, mentre altri Paesi occidentali hanno indebolito le risoluzioni per via di astensioni e formule ambigue. Anche chi ha criticato l’invasione pianificata di Rafah, tipo Germania o Canada, ha poi sospeso i fondi all’agenzia Unrwa.
Solo sette Paesi hanno segnalato la situazione alla Corte penale internazionale mentre tanti hanno cercato di minarne i mandati di arresto e almeno in 37 si sono mostrati evasivi o critici a riguardo. Gli Stati Uniti hanno addirittura imposto sanzioni per paralizzarla mentre il Regno Unito ha minacciato di tagliarne i finanziamenti. Intanto il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu poteva liberamente muoversi nello spazio aereo europeo (compreso quello italiano).
Complessivamente dall’ottobre 2023 venti nuovi Stati hanno riconosciuto lo Stato di Palestina ma con condizioni restrittive in materia di governance, integrità territoriale, indipendenza politica e smilitarizzazione, che riproducono di fatto forme di “tutela” coloniale. Il 30 settembre 2025, numerosi Stati, tra cui Egitto, Indonesia, Giordania, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Turchia ed Emirati Arabi, hanno poi avallato il “Piano Trump”, nonostante questo non faccia alcun riferimento alla fine dell’occupazione, all’accertamento delle responsabilità o a un qualche genere di giustizia transitoria.
Il secondo articolo del rapporto si intitola “Legami militari: fornire i mezzi di distruzione”. Sebbene dal 1976 le risoluzioni delle Nazioni Unite abbiano richiesto l’embargo sugli armamenti nei confronti di Israele, molti Stati hanno continuato a fornire sostegno militare e trasferimenti di armi. Queste importazioni costituiscono una quota sul totale del commercio israeliano quattro volte maggiore rispetto a quanto avviene negli Stati Uniti. E le forniture internazionali sono continuate anche con l’accumularsi delle prove di genocidio, con Stati Uniti, Germania e Italia tra i principali fornitori.
I due terzi delle importazioni arrivano da Washington: dal 1967 Israele è diventato il principale beneficiario del programma di “Finanziamento militare estero”. La partnership consolidata da quasi trent’anni di accordi assicura a Tel Aviv forniture costanti di aiuti militari ed economici e un accesso privilegiato alle armi americane. L’attuale memorandum d’intesa, valido fino al 2028, prevede 3,8 miliardi di dollari l’anno, di cui mezzo miliardo per la difesa missilistica. Le amministrazioni Biden e Trump hanno ridotto la trasparenza sulle forniture, consentito a Israele di accedere agli arsenali statunitensi all’estero e approvato numerose vendite evitando lo scrutinio del Congresso. Gli Stati Uniti hanno inoltre fornito supporto militare e d’intelligence usato anche nei raid su Gaza, compreso il primo sull’ospedale di Al Shifa.
La Germania è il secondo maggiore esportatore di armi verso Israele dall’inizio del genocidio, giustificando il sostegno con presunti obblighi post-olocausto. Tra ottobre 2023 e luglio 2025 ha rilasciato licenze individuali (che permettono a un’azienda di esportare beni militari o a duplice uso verso uno specifico destinatario in uno specifico paese) per 489 milioni di euro, il 15% di quelle concesse in 22 anni, senza contare trasferimenti collettivi o intergovernativi. Dopo una sospensione temporanea ad agosto 2025, a settembre sono state autorizzate nuove esportazioni per 2,46 milioni di euro.
Il Regno Unito ha usato le basi a Cipro per rifornire gli Stati Uniti a Tel Aviv e compiere oltre 600 missioni di sorveglianza su Gaza, condividendo informazioni di intelligence con Israele. La frequenza e la durata dei voli, che spesso coincidono con le principali operazioni israeliane, indicano una collaborazione diretta nella distruzione di Gaza che va ben oltre il dichiarato “salvataggio degli ostaggi”.
Altri Stati hanno fornito parti, componenti e armi a Israele attraverso un sistema opaco che oscura i trasferimenti. Tra ottobre 2023 e ottobre 2025, 26 Stati hanno inviato almeno 10 spedizioni di “armi e munizioni” a Israele -il più frequente dei quali è stata la Cina, ma anche da Taiwan, India, Italia, Austria, Spagna, Repubblica Ceca, Romania e Francia- di aerei militari, veicoli terrestri, droni, cani e prodotti a duplice uso come i circuiti integrati.
Diciannove Paesi -tra cui Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti- forniscono inoltre componenti per gli F-35 usati per bombardare Gaza dal cielo. Le forniture vengono giustificate etichettando le armi come “difensive” ma il Trattato sul commercio delle armi che 17 di questi Stati hanno ratificato non riconosce tali distinzioni: impone invece di valutare come le componenti vengano realmente utilizzate.
L’Italia, terzo esportatore verso Israele nel periodo 2020-2024, ha sostenuto di rispettare gli obblighi legali di cessare tali esportazioni, pur proseguendo i contratti esistenti. Intanto merce diretta verso Israele continua a transitare indisturbata dai nostri porti e aeroporti.
La sezione “L’uso degli aiuti come arma: creare le condizioni per il genocidio” dimostra come anche gli aiuti umanitari siano stati strumentalizzati per aggravare le condizioni di vita a Gaza. Prima del 7 ottobre 2023, il blocco di Israele ed Egitto -con severe restrizioni alla circolazione delle merci fino al calcolo specifico dell’apporto calorico- aveva già reso l’80% della popolazione dipendente dagli aiuti. Poi il blocco è diventato totale: fino a gennaio 2025 gli aiuti erano stati limitati a 107 camion al giorno, meno di un terzo dei livelli precedenti, e ad agosto 2025 Gaza è stata dichiarata in stato di carestia, con almeno 461 morti accertati per malnutrizione.
La campagna genocida ha mirato a distruggere il sistema umanitario bombardando magazzini, scuole e cliniche, uccidendo oltre 370 operatori, diffamando l’Unrwa e promuovendo strutture pseudo-umanitarie ad hoc.
Quando Israele ha affermato, senza prove, che il personale dell’agenzia Unrwa fosse coinvolto negli eventi del 7 ottobre, 18 Stati hanno immediatamente sospeso i finanziamenti, avallando acriticamente la versione israeliana. Nonostante le indagini abbiano dimostrato l’infondatezza delle accuse, il personale è stato poi licenziato.
Il brutale attacco al sistema delle Nazioni Unite è stato completato dal tentativo di sostituirlo con un meccanismo di aiuti controllato da Israele e dagli Stati Uniti. La Gaza humanitarian foundation, concepita già nel dicembre 2023 con il sostegno e il finanziamento degli Stati Uniti, ha utilizzato la distribuzione degli aiuti, attraverso siti gestiti dall’esercito e presidiati da mercenari statunitensi, per facilitare lo sfollamento forzato dei palestinesi. Un prologo del cosiddetto “Piano Gaza riviera”, propagandato dallo stesso Trump.
I tentativi da parte di gruppi della società civile di rompere l’assedio tramite missioni di aiuto navale sono stati illegalmente intercettati da Israele in acque internazionali, tra il silenzio e l’inerzia dei Paesi stranieri.
Nella parte sulle “Relazioni economiche e commerciali: il carburante e i profitti del genocidio”, Albanese sottolinea poi come Israele dipenda largamente dal commercio internazionale (54% del Pil nel 2024) e quanto il mantenimento delle normali attività legittimi e sostenga il regime di apartheid. L’Ue, principale partner, ha rappresentato quasi un terzo del commercio negli ultimi due anni con esportazioni per 474 miliardi di dollari tra 2022 e 2024, rafforzando la capacità economica e militare.
Dal 2014 l’Ue -tramite i programmi Horizon 2020 e Horizon Europe- ha finanziato con 2,1 miliardi di euro enti israeliani nei settori di scienza, tecnologia e innovazione, molti dei quali sviluppano tecnologie militari o a duplice uso. Dal 2021 il Consiglio europeo per l’innovazione ha investito inoltre 550 milioni in 34 aziende israeliane mentre la Banca europea per gli investimenti ha concesso 2,7 miliardi di euro dal 1981, inclusi 760 milioni a Bank Leumi, pesantemente coinvolta nei Territori occupati.
Solo pochi Stati hanno ridotto gli scambi commerciali nel corso del genocidio, anzi molti li hanno aumentati, tra cui Germania (più 836 milioni di dollari), Polonia, Emirati Arabi (entrambi più 237), Egitto (più 199), Grecia (più 186) e Italia (più 117 milioni). Un documento interno dell’Ue, trapelato nell’agosto 2025, mostra come questa fosse determinata a mantenere il business-as-usual: quando a settembre 2024 alcuni funzionari dell’Ue hanno incontrato Dror Bin, capo dell’Autorità israeliana per l’innovazione, hanno affermato infatti che escludere Israele dai programmi solo per nazionalità sarebbe stato “improprio” e discriminatorio.
Storicamente il commercio di energia è stato spesso soggetto a embarghi volti a far rispettare obblighi internazionali (come in Sudafrica, Russia, Iran). Nel caso di Israele, però, solo la Colombia ha vietato le esportazioni di carbone nel 2024 mentre Marocco, Italia, Francia e Turchia hanno mantenuto aperti porti chiave per petrolio e gas. Nell’agosto 2025, l’Egitto ha addirittura stretto con Israele un accordo sul gas fossile da 35 miliardi di dollari, il più rilevante nella storia israeliana.
Gli orrori degli ultimi due anni non sono un’aberrazione ma il culmine di una lunga storia di complicità. Potenti Stati terzi, che perpetuano strategie coloniali e razziste, hanno permesso che pratiche violente diventassero una realtà quotidiana e per questo dovrebbero essere ritenuti responsabili. Il mancato rispetto del diritto internazionale da parte di molti Stati -mette in guardia Albanese- mina le fondamenta dell’ordine multilaterale faticosamente costruito nel corso degli ultimi 80 anni.
Il 28 ottobre il rapporto è stato presentato alla Terza commissione dell’Assemblea generale dell’Onu. L’ambasciatore Maurizio Massari, rappresentante italiano presso le Nazioni Unite nonché d’ufficio al Cairo quando Giulio Regeni fu torturato e ucciso dalle forze di sicurezza egiziane, ha frontalmente attaccato la Relatrice: “Il rapporto è del tutto privo di credibilità e imparzialità e supera palesemente il mandato specifico della Relatrice speciale, che non include indagini su presunte violazioni commesse da altri Stati o entità né giudizi sulla cooperazione tra Paesi terzi e la Corte penale internazionale. […] Il codice di condotta invita i relatori a garantire che le loro opinioni politiche personali non pregiudichino l’esecuzione della missione”. Basta leggere il rapporto per distinguere il grano dei fatti dal loglio del fango.
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