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G8 di Genova: l’assoluzione della Corte dei conti non cancella le responsabilità della polizia e dello Stato

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I 26 agenti condannati per i pestaggi e i falsi della scuola Diaz del luglio 2001 non dovranno risarcire quanto pagato dallo Stato a una delle vittime. Ma questo non intacca la sentenza pesantissima della Corte di Strasburgo del 2015 a carico della polizia e dello Stato. E mentre la legge sulla tortura è insufficiente, l’introduzione dei codici identificativi sulle divise è scomparsa dal dibattito

Stavolta la Corte dei conti li ha assolti. I 26 poliziotti condannati per i pestaggi e i falsi alla scuola Diaz di Genova del 20 luglio 2001 non dovranno risarcire il 75% di quanto pagato dallo Stato ad Arnaldo Cestaro -una delle vittime- per ordine della Corte europea dei diritti umani, alla quale Cestaro aveva fatto appello per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti umani, quello che proibisce trattamenti inumani e degradanti e tortura.

Secondo i giudici contabili la condanna fu inflitta all’Italia dalla Corte di Strasburgo (aprile 2015) per l’assenza nel nostro ordinamento di uno specifico reato di tortura, perciò gli agenti condannati nel processo italiano non sono responsabili del danno patrimoniale subito dallo Stato (i 45mila euro pagati a Cestaro). Se ci fosse stata la legge -è questa la tesi sostenuta dai legali e accolta dai giudici- l’Italia non sarebbe stata condannata e quindi tocca allo Stato pagare l’intera entità del conto, senza possibilità di rivalersi sui funzionari.
Sul piano tecnico-giuridico toccherà all’accusa, eventualmente, replicare e chiedere un giudizio d’appello, sul piano storico e politico tornano alla mente alcuni passaggi della sentenza del 2015. Per esempio dove si afferma che “tenuto conto della gravità dei fatti avvenuti alla Diaz la risposta delle autorità italiane è stata inadeguata”, non solo perché l’assenza di una legge sulla tortura ha mandato in prescrizione la maggior parte dei reati contestati, ma anche perché “la polizia italiana ha potuto impunemente rifiutare alle autorità competenti la necessaria collaborazione per identificare gli agenti che potevano essere implicati negli atti di tortura”.
Non dimentichiamolo: gli autori materiali dei pestaggi sono rimasti ignoti e quindi sono riusciti a sfuggire alla giustizia; sono rimasti impuniti non per negligenza o inefficienza della magistratura, ma per l’ostruzionismo e per gli ostacoli opposti (“impunemente”) dalla polizia di Stato.

Torna alla mente anche l’invito, contenuto in quella sentenza, a rispettare l’obbligo di indossare codici di riconoscimento sulle divise durante le operazioni di ordine pubblico. In un altro passaggio i giudici europei rimarcavano la rinuncia da parte dello Stato a infliggere sanzioni amministrative a imputati e condannati, violando in tal modo gli obblighi indicati dalla giurisprudenza della Corte: sospensione al momento del rinvio a giudizio, rimozione in caso di condanna definitiva.
Insomma, una sentenza di assoluzione non fa primavera. In primo luogo perché gli stessi agenti e funzionari responsabili dei falsi e degli abusi alla scuola Diaz nel marzo scorso erano stati condannati (in primo grado) dalla Corte dei conti a rifondere allo Stato 2,8 milioni di euro, a compensare i risarcimenti pagati alle vittime. In secondo luogo -più importante- perché se allarghiamo lo sguardo all’insieme dei fatti e allo stato attuale della legislazione, si scopre che le lacune sono ancora gravissime. Una legge sulla tortura in effetti c’è, ma è così farraginosa e contraddittoria che il Comitato dell’Onu per la prevenzione della tortura ha chiesto di cambiarla subito dopo averne esaminato il testo. Quanto ai codici di riconoscimento sulle divise, niente è ancora accaduto e lo Stato italiano resta inadempiente, mentre gli agenti condannati per il caso Diaz -a dispetto delle indicazioni della Corte europea- sono rientrati in servizio alla scadenza dei cinque anni di sospensione previsti per i condannati, altro che sospensioni e rimozioni.
C’è un giudice a Strasburgo, ma non c’è un legislatore serio a Roma.

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