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Esteri / Intervista

Il futuro incerto dei figli dell’Isis

© Alessio Romenzi

La giornalista Francesca Mannocchi è autrice -insieme al fotografo Alessio Romenzi- del documentario “Isis, tomorrow” -presentato oggi al Festival di Venezia-, che racconta le storie dei bambini e dei ragazzi cresciuti sotto il Califfato: vittime e potenziali carnefici su cui incombe un futuro incerto. L’abbiamo intervistata

A guerra finita, l’Iraq sarà in grado di accettare i figli dell’Isis come propri figli, di perdonare le loro madri, e riconciliare le anime del Paese? Parte da questa domanda la ricerca di Francesca Mannocchi, giornalista freelance, e del fotografo Alessio Romenzi, autori del documentario “Isis, tomorrow. The lost souls of Mosul” presentato oggi al Festival del Cinema di Venezia. Un lungo e paziente lavoro di ricerca e documentazione sul campo, che ripercorre i lunghi mesi di guerra attraverso le voci dei figli dei miliziani addestrati a diventare kamikaze, ma anche delle loro vittime e di chi li ha combattuti.

Francesca, come nasce questo documentario?
FM
“Isis Tomorrow” nasce da un incontro che io e il fotoreporter Alessio Romenzi (co-autore del documentario, ndr) abbiamo fatto a Mosul nell’autunno 2016. Stavamo seguendo l’inizio dell’offensiva per liberare la città dai miliziani dell’Isis quando, durante uno dei giorni di relativa calma, a un caffè abbiamo incontrato Abudi, un ragazzino che ha iniziato a raccontarci com’era la vita quotidiana sotto l’Isis, le sue perdite, le sofferenze patite e quale educazione ha ricevuto. Abbiamo iniziato chiederci cosa ne sarà, nei prossimi anni, di questi bambini. Abbiamo posto questa domanda anche ad altri cittadini iracheni e la risposta è stata: “Li ammazzeranno il più possibile”. Una risposta brutale, ma ineluttabile, che ci ha spinto a interrogarci ulteriormente, a osservare la guerra e il dopoguerra con uno sguardo diverso e soprattutto ad ascoltare le posizioni scomode.

Perché avete deciso di raccontare le storie dei bambini?
FM Questa scelta nasce dal fatto che i bambini sono i “semi” che l’Isis si è lasciata alle spalle: nell’idea di costruzione dello Stato Islamico i bambini sono il “mattone” principale. Sono coloro che devono portare l’idea del Califfato nel futuro. Non importa se è stata persa la battaglia geografica, sul terreno, quello che conta è che resista un’ideologia. L’Isis ha una visione di medio-lungo termine che alla coalizione internazionale manca: quando finiscono i combattimenti il tema scompare dalle agende. Fino a quando, anni dopo, il problema si ripropone.

Come fare per evitare che questo accada?
FM Bisogna salvare questa generazione. Bambini e ragazzi come Abudi, vittima dell’Isis, che ti guarda degli occhi e ti dice: “Non avrò mai pace fino a quando non avrò vendetta”. Aver normalizzato la violenza è forse il danno più grande che Isis ha fatto all’Iraq. Onestamente non penso che siamo sulla buona strada.

Chi sono questi bambini?
FM Una delle voci portanti del documentario è quella di un ragazzino di 16 anni, nato a cavallo dell’occupazione americana dell’Iraq. La generazione degli adolescenti che oggi hanno tra i 14 e i 16 anni hanno conosciuto solo la violenza nel momento peggiore della storia dell’Iraq. La caduta di Saddam e l’occupazione americana hanno determinato una stigmatizzazione e un senso di abbandono nella comunità sunnita a Mosul. Che è cresciuto ulteriormente nel momento in cui le truppe americane se ne sono andate, lasciando il Paese in una situazione molto peggiore rispetto al passato. Una situazione che, in parte, ha determinato l’ascesa dell’Isis. Poi ci sono i bambini più piccoli, dagli otto anni in giù: per loro Isis è stata una presenza costante per uno o due anni, che per un bambino è un tempo lunghissimo, durante il quale è stato veicolato il messaggio che la violenza è l’unica risposta alla violenza.

Com’è la situazione a Mosul oggi?
FM Mosul è una città spaccata in due. Di giorno, nella parte Est sembra che la guerra non ci sia mai stata, mentre i quartieri occidentali, al di là del fiume Tigri, sono stati completamente rasi al suolo. Io e Alessio Romenzi siamo stati a Mosul lo scorso maggio, a quasi un anno dalla fine dei combattimenti, stavano ancora rimuovendo i cadaveri da sotto le macerie, ancora non si sa quante siano le vittime civili.
Ma la ricostruzione materiale, timidissima, che procede durante il giorno, non va di pari passo con la ricostruzione del tessuto sociale. Di notte leggi le grammatica della vendetta: ascolti le famiglie dei miliziani nascoste in casa che temono ritorsioni, vedi i mukhtar che con una mano cercano di aiutare la comunità e con l’altra stilano le liste dei presunti familiari dei miliziani Isis da cacciare dalla città.

C’è la consapevolezza di questo rischio? E che cosa stanno facendo il governo iracheno e le organizzazioni internazionali per affrontare questa situazione?
FM Credo che il problema tutti abbiano ben presente il problema, quello che mancano solo le soluzioni. Era chiaro fin dal 2014, quando Al Baghdadi ha dichiarato la nascita dello Stato Islamico, che ci sarebbe stato il problema della de-radicalizzazione e del recupero fisico e psicologico di un’intera generazione: stiamo parlando di circa 500mila tra bambini e ragazzi solo a Mosul. Il fatto che la comunità internazionale costruisca decine di campi profughi e non si organizzi per arginare le deriva morale e sociale a cui la società irachena va incontro è qualcosa che ci lascia stupefatti.

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