Una voce indipendente su economia, stili di vita, ambiente, cultura
Altre Economie

Fuori dal ghetto

La decisione di chiudere entro l’estate il ghetto di Rignano -deliberata dalla Giunta regionale pugliese all’inizio di aprile- ha scatenato la vendetta dei caporali: il 30 aprile, due attivisti di Casa Sankara sono stati aggrediti, uno è finito in pronto soccorso. A febbraio Altreconomia aveva raccontato il progetto "rivoluzionario" di Herve e Mbaye, concepito per superare il "modello ghetto": case autocostruite in legno e paglia per 400 migranti e 18 ettari da coltivare con pomodori bio. Che il commercio equo trasformerà e distribuirà —

Tratto da Altreconomia 158 — Marzo 2014

Minacce di morte, aggressioni, tentati omicidi. Tutto ciò accade in Puglia, nell’Agro di San Severo, nel ghetto di Rignano Garganico. E capita a chi, come Herve, Mbaye e i "rivoluzionari" di Casa Sankara, si è messo in testa di chiudere l’emblema del bracciantato sfruttato, in mano a caporali, mafie e malaffare. L’ultimo capitolo è stato scritto mercoledì 30 aprile, quando due ragazzi dell’albergo diffuso sono stati aggrediti da un gruppo di "inquilini" del ghetto, convinti dai caporali che chi è in prima fila per liberarli dalla schiavitù voglia espellerli dall’Italia, sottraendogli dignità e comunità. "Un’informazione sbagliata e falsa", lamenta Herve mentre descrive il tentato omicidio di qualche giorno fa.

"Erano partiti in cinque -due ragazzi di Casa Sankara, due dell’Art Village e l’autista- diretti al Ghetto, per prelevare un gruppo di migranti interessati all’assemblea che si sarebbe tenuta all’albergo diffuso in vista del passaggio della Carovana antimafia", racconta Herve. Giunti al ghetto, però, il gruppo sarebbe stato aggredito. Uno dei due di Casa Sankara è finito al pronto soccorso, mentre Mbaye e Tonino D’Angelo (Art Village) si erano precipitati dai Carabinieri per sporgere denuncia.

La chiusura del ghetto sarebbe un colpo difficile da ammortizzare per le mafie del caporalato che ad ogni stagione traggono braccia, gabelle e ricavi da chi sfruttano. E il fatto che la Regione Puglia, dopo anni di incertezze, abbia politicamente e formalmente apposto una data di scadenza al ghetto di Rignano ha infuocato il clima.

S’intitola “Capo free – Ghetto off” il piano d’azione approvato dalla Giunta regionale pugliese lo scorso 2 aprile che ha messo al centro il superamento -e cioè la chiusura- del più esteso luogo di concentrazione stagionale (e non) del bracciantato della Capitanata, nella provincia di Foggia: il “ghetto di Rignano”. 

“Nell’ultimo anno la situazione è notevolmente peggiorata”, si legge nella delibera (574/2014), e le “condizioni igienico sanitarie” sono caratterizzate da “grave precarietà”. Dunque, “nei prossimi mesi, e comunque prima della stagione estiva”, il traguardo sarà “smobilitare” il ghetto. È un messaggio chiaro che giunge in una zona -quella del Foggiano- che è la prima tra le 15 province italiane che assorbono il 50,6 % della totalità degli stranieri operanti in agricoltura (risulta in testa con il 6,4%, dati del Dossier Statistico 2013‐ Rapporto UNAR). 

Nuove strutture mobili e temporanee (moduli da campo), potenziamento della rete degli alberghi diffusi, 500mila euro stanziati per la ristrutturazione e manutenzione di immobili pubblici o confiscati alle mafie, assistenza sanitaria (grazie a Emergency), 300mila euro per la formazione dei migranti e incentivi alle imprese che assumono lavoratori stagionali iscritti alle liste dei centri per l’impiego. Sono queste alcune delle principali iniziative che verranno monitorate e coordinate dall’appena costituita “task force” in seno alla Regione Puglia.

Il 30 aprile, come detto, in occasione del passaggio della Carovana antimafia, l’alternativa credibile al “modello ghetto” (grazie all’agricoltura biologica e all’autocostruzione di alloggi) è stata attaccata. Ma la motivazione di Herve e degli altri non si è incrinata: "non ci fermeremo". 

Ecco il reportage (anche video) pubblicato sul numero 158 di Altreconomia.

***

Papa Latyr Faye (detto Herve) e Mbaye Ndiaye sono due rivoluzionari: hanno deciso di liberare 400 persone, chiuse dentro un ghetto, quello dell’agro di San Severo (a quaranta chilometri da Foggia). Quelle stesse persone che ogni estate diventano 2mila, affollando la zona della Capitanata per la stagione della raccolta del pomodoro, pronte a lavorare alle condizioni imposte dal caporalato agricolo: senza servizi e senza alcun diritto riconosciuto. Un fenomeno che “costa” in termini di evasione contributiva oltre 400 milioni di euro allo Stato, e può contare su manodopera stracciata. Basti pensare alla presenza migrante tra gli iscritti all’elenco anagrafico dei lavoratori agricoli della provincia di Foggia, passata dai 5mila addetti e poco più del 2006 agli oltre 20mila del 2013. La punta di una situazione ben più vasta.

Supportati da una fitta rete di associazioni -da Libera all’Arci, dalla Federazione nazionale dei lavoratori dell’agroindustria (Flai) della Cgil di Foggia alla cooperativa sociale Pietra di scarto di Cerignola- Herve e Mbaye, entrambi senegalesi, hanno concepito il loro percorso di emancipazione, pensando che per raggiungere il loro obiettivo fosse necessario utilizzare due strumenti: l’autocostruzione di un eco-villaggio e la coltivazione in proprio del pomodoro, da immettere poi sul mercato grazie alla rete del commercio equo e solidale.

Herve e Mbaye danno appuntamento ad Altreconomia nel cortile del luogo dove tutto è cominciato: l’Art Village di San Severo (artvillegesansevero.wordpress.com), coordinato da Tonino D’Angelo, che di mestiere fa il medico igienista. Sorto come centro di accoglienza della Asl di Foggia, l’Art Village è uno spazio diffuso su un ettaro che unisce l’attività di un presidio Asl a diversi progetti di inclusione sociale e accoglienza: da una sala prove a un laboratorio sartoriale, fino a lezioni di autocostruzione. “Il modello da cui è nato è quello del Gruppo Abele di Luigi Ciotti o l’esperienza di Don Gallo -racconta D’Angelo-. Cinque anni fa un gruppo di giovani ha coniato lo slogan ‘restare per cambiare, cambiare per restare’ e ha deciso di rimanere sul territorio, dando vita ad esperienze teatrali, musicali, cinematografiche”. Tutte attività ad accesso gratuito, per un “servizio Asl un po’ anomalo”, sorride D’Angelo, che formalmente è “dirigente della struttura”. Nello spiazzo intitolato “Piazza costruttori di pace” c’è un fabbricato in legno. È un pezzo della rivoluzione di Herve e Mbaye. “L’abbiamo costruita noi -rivendicano-. Questa è la casa nata contro il caporalato”, esordisce Mbaye mentre mostra l’interno della struttura la cui realizzazione è costata poco meno di 6mila euro. Denaro che, come racconta Tonino D’Angelo, era stato destinato all’Art Village dal ministero dell’Interno nell’ambito di un progetto sociale sotto la voce “cancelleria”. Mbaye ripercorre i passaggi: “Quando siamo andati al ghetto, dove abbiamo visto che gli africani vivevano nelle baracche e la dignità nera era calpestata, ci siamo immaginati questo progetto di autocostruzione, autosufficienza alimentare e di trasporto autogestito”.

Il 25 luglio 2013 è il giorno che rappresenta, per lui e altri, l’ottenimento di un posto letto all’albergo diffuso di San Severo, che è una delle tre strutture regionali messa a disposizione per “immigrati stagionali” dalla Regione nel 2007 (gli altri due sono a Foggia e a Cerignola). Secondo l’amministrazione comunale di San Severo, la struttura appena ultimata sarebbe stata “pronta a soddisfare le esigenze di lavoratori immigrati stagionali presenti nel territorio dell’Alto Tavoliere”. Il punto, però, è che i posti letto messi a disposizione in quella che Mbaye ed Herve hanno intitolato “casa Sankarà” (in memoria dell’ex presidente del Burkina Faso ucciso durante un colpo di Stato il 15 ottobre 1987), e che occupa tre fabbricati, per 380 metri quadrati complessivi, sono 36. Pochi per rispondere alle esigenze di 400 persone, pensando solo agli stanziali del ghetto.

È anche a partire da questo punto che la “lotta”, come sostiene Herve, è entrata nella fase più matura. “Due anni fa -racconta dall’interno del prototipo di alloggio autocostruito- abbiamo deciso di andare oltre la denuncia delle condizioni del ghetto e fare delle proposte, portare delle soluzioni”. E se l’Art Village è l’origine, l’albergo diffuso di San Severo è la meta.

Herve, Tonino e Mbaye fanno strada, seguiti dal segretario generale della Flai-Cgil di Foggia, Daniele Calamita, e da Pietro Fragasso, presidente della cooperativa sociale Pietra di scarto di Cerignola (www.pietradiscarto.it), che gestisce una bottega del commercio equo e solidale ed è attiva su un bene confiscato alla criminalità organizzata a Cerignola, dove produce olive da tavola e verdure. Secondo Calamita, sui 27mila ettari di superficie destinata a pomodoro nel 2013 nella Capitanata avrebbero lavorato oltre 15mila migranti. A queste condizioni: 3,5 euro per ogni cassone da tre quintali riempito. Sfruttamento continuo che vede il caporale ottenere una “commissione” per il trasporto, l’affitto, i pasti, le ricariche telefoniche; un furto al netto del quale al singolo lavoratore schiavizzato restano in tasca qualcosa come 400 o al massimo 500 euro per due mesi di lavoro.

All’ingresso dell’albergo diffuso ci sono due palazzine, una del Consorzio di bonifica di Foggia e l’altra in capo all’assessorato regionale all’Agricoltura. “I terreni sono della Regione Puglia, la quale investe per acqua e servizi poco più di 20mila euro ogni sei mesi, per portare acqua e luce ai tre fabbricati che costituiscono l’albergo diffuso”, spiega D’Angelo. Nulla, se confrontato al milione di euro speso ogni anno per portare acqua (in piccole cisterne) e bagni chimici ai reclusi delle baracche del ghetto, come spiega ad Ae l’assessore regionale alle Politiche giovanili e con delega all’immigrazione, Guglielmo Minervini.
L’assessore rappresenta l’interlocutore privilegiato della rete costituitasi attorno all’idea di Herve e Mbaye. Dal settembre 2013, infatti, sul tavolo della Regione c’è il progetto, con annessa richiesta di concessione dei 20 ettari di terreni che circondano l’albergo diffuso di San Severo. “Non c’è ombra di dubbio che gestire l’emergenza costi di più che risolvere i problemi -racconta Minervini al telefono-. La Puglia e il ghetto sono incompatibili -prosegue- ed è per questo che quando la proposta ci è stata formalizzata abbiamo lavorato per dare gambe al progetto: sia per quel che riguarda le risorse finanziarie per affrontare la sfida, sia per garantire la copertura amministrativa necessaria per accedere a questo pezzo di patrimonio pubblico regionale. Le risorse finanziarie sono state allocate all’interno di due bandi pubblicati all’inizio del 2014 (300mila e 200mila euro rispettivamente). Dall’altra parte è in corso un tavolo interassessorile per poter mettere a disposizione i suoli e gli immobili”.

“Com’è possibile che si possano utilizzare dei beni confiscati alla mafia -si chiede Tonino D’Angelo-, e ci si trovi a faticare ancor di più a valorizzare dei beni pubblici congelati da quarant’anni?”.
Poco prima dei terreni al centro del progetto di riscatto dal ghetto c’è un cartello, una citazione di Thomas Sankarà: “Lo schiavo che non prende la decisione di lottare per liberarsi si merita completamente le sue catene”. Herve e gli altri ne hanno mutuato lo spirito, appendendo agli ingressi degli stabili una “comunicazione informativa”: “Non è più permesso agli amici di tornare al ghetto per motivi che non fanno parte del piano di lotta al caporalato e allo sfruttamento degli migranti. Chiunque non segue la regola sarà immediatamente allontanato. I referenti”.

“La nostra idea è che 18 ettari su 20 vengano destinati all’agricoltura”, spiega Mbaye, al fine di poter garantire l’autosufficienza alimentare degli abitanti del centro. Non solo, tramite la commercializzazione, la cooperativa che hanno fondato raggiungerebbe anche l’emancipazione economica. Gli ettari che restano dovrebbero accogliere inizialmente almeno 116 case identiche a quella “pilota” realizzata all’Art Village, progettate grazie al contributo dell’architetto Leonardo Giustizia, in modo tale da assorbire almeno la popolazione stanziale che si trova nell’agro di San Severo. I materiali sono semplici -legno e paglia- e le istruzioni costruttive sono state condivise grazie al percorso ad hoc avviato all’Art Village.

Discorso diverso è quello per i lavoratori stagionali, che contribuiscono a far quintuplicare il numero degli abitanti del ghetto in agro di San Severo durante la stagione della raccolta del pomodoro. L’assessore Minervini l’ha ben presente: “Stiamo lavorando per costruire risposte miste, fondate sull’irrobustimento sulla capacità di accoglienza più degne. Vogliamo coinvolgere le imprese in una doppia sfida, che passa per il superamento dello schiavismo e del caporalato, tramite un bollino di eticità riconosciuto e incentivato, e sull’accoglienza all’interno delle stesse aziende di una quota di lavoratori. Questo ci consentirebbe un’ospitalità distribuita e non concentrata”.

“Se non facciamo l’agricoltura -dice Herve all’ingresso di uno dei tre fabbricati, che è intitolato alle storiche battaglie del sindacalista Giuseppe Di Vittorio, che a Cerignola era nato- significa che abbiamo parlato per niente”. A prova della loro capacità c’è un fazzoletto di terra coltivato in maniera sinergica che rifornisce di insalata, verza e carote le 30 persone che vivono nell’albergo diffuso.
Chi si occuperà della trasformazione e della commercializzazione del pomodoro, che sarà biologico e solidale, coltivato dagli abitanti dell’albergo diffuso e del futuro eco-villagio sarà il consorzio Altromercato (www.altromercato.it). La fase iniziale vedrà coinvolti 2 dei 18 ettari destinati all’agricoltura. Il pomodoro sarà condotto presso un trasformatore di Bari con il quale il Consorzio opera già da tempo. Dopodiché sarà messo in commercio in passata (13mila pezzi all’anno) e pelati (7mila) presso le botteghe del mondo. Sull’etichetta sarà scritto “Solidale italiano Altromercato”.

Dentro lo stabile Di Vittorio, intanto, gli ospiti dell’albergo diffuso hanno raccolto una documentata rassegna stampa sullo “sconcerto”, “indignazione”, “vergogna”, “emergenza”, suscitati ogni agosto dalla vista delle condizioni dei braccianti. Dopo la rivolta di Rosarno (gennaio 2010), lo stesso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva chiesto di “non mortificare il lavoro”. Un appello che non ha cambiato la vita di Nadine, camerunese: “Lei è molto importante per noi”, confessa Mbaye, perché ha deciso di liberarsi dal ghetto e di condurre altre donne lungo lo stesso percorso. Prima di riuscire a raggiungere l’albergo diffuso, Nadine ha trascorso un anno e otto mesi al ghetto, che da qui dista solo tre chilometri.

La strada per raggiungerlo attraversa la campagna, tra casolari diroccati circondati da spazzatura e parentesi ordinate di ulivi. È facile incrociare i primi migranti a piedi o in bicicletta, poggiati su cassoni vuoti a lato dei terreni agricoli. La condizione di “irregolarità” li fa sfuggire al dato nazionale riferito allo scorso anno -dossier Caritas Migrantes– che pone al 13% la quota di inserimento dei lavoratori stranieri sul totale dei lavoratori agricoli nel nostro Paese. La lingua di baracche del ghetto -cui ha fatto visita persino un ambulatorio mobile di Emergency- si presenta come un orizzonte piatto, con le pale eoliche a far da sfondo. Piove da giorni e sulle “case” fatte di scheletri di travi in legno e cartoni sono distesi teli di plastica tenuti insieme da alcuni elastici. Fango, biciclette, qualche automobile. Ci sono un bar, una panineria kebab e persino una radio (“Radioghetto”). Il furgone bianco guidato da Mbaye si ferma nei pressi dell’alloggio di Omar, un ragazzo del Benin giunto in Italia dopo l’esplosione della guerra in Libia (inizio 2011). È il simbolo dei ragazzi della “casa Sankarà” di San Severo, perché ha tenuto le chiavi della gabbia del ghetto con sé, senza però più viverci. È un avamposto in vista dell’emancipazione. Dieci metri quadrati pagati 400 euro dove ha vissuto per 7 mesi, dopo due anni di sistemazione in hotel per richiedenti asilo. “Terminati i due anni ho saputo del ghetto. Ci sono venuto perché ero senza soldi”, prosegue il padrone di casa, che ha lavorato in campagna. Il pavimento è coperto di vecchi manifesti elettorali, perché sotto c’è terra bagnata. Mbaye è radicale: “Questa è un’emergenza continua. So che è difficile da dire, ma io qui non porterei più neanche una goccia d’acqua”, dice mentre ancora una volta riflette sui costi pubblici esorbitanti legati al mantenimento del ghetto. Chi vive ancora qui, invece, è Kader, giovanissimo fratello di Omar. Cipolle, melanzane e una “vita di merda” lo costringono -dato il tempo e la stagione- ad aspettare l’estate. 
L’ultima, secondo Mbaye ed Herve: “L’abbiamo detto sia al Prefetto di Foggia sia all’assessore Minervini: se entro quest’anno il ghetto non sarà superato, organizzeremo una camminata silenziosa che porterà i nostri compagni fino all’albergo diffuso di San Severo, occupando, se occorre, le palazzine bloccate, per chiedere che la situazione venga risolta”. —

Newsletter

Iscriviti alla newsletter di Altreconomia per non perderti le nostre inchieste, le novità editoriali e gli eventi.