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Cultura e scienza / Intervista

Paolo Fresu. Fare comunità nel segno del jazz

“Questo genere è libertà espressiva, improvvisazione, sperimentazione, ricerca”. Intervista al più importante jazzista italiano. Un uomo che ama il silenzio e difende l’ambiente

Tratto da Altreconomia 187 — Novembre 2016
Paolo Fresu è nato nel 1961 a Berchidda (SS). Nel 2016 ha pubblicato “Mare Nostrum II” (ACT Music), con Richard Galliano e Jan Lundgren. Il suo sito è www.paolofresu.it

Paolo Fresu è considerato il più importante esponente del jazz italiano. Ha suonato in ogni continente e con i nomi più importanti della musica afroamericana degli ultimi trent’anni. La sua produzione discografica è monumentale, con oltre 350 dischi di cui più di ottanta a proprio nome o in leadership. Curiosità e sensibilità lo hanno spinto a portare la musica jazz oltre i suoi territori tradizionali, lavorando con progetti “misti” di jazz, world music, musica contemporanea, etnica leggera, antica.

Come ci si sente ad essere paragonato a due grandi musicisti come Miles Davis e Chet Baker?
PF Sono stati i primi trombettisti che ho ascoltato e dai quali ho imparato moltissimo. Mi piace il suono e il fraseggio di Chet, l’architettura musicale e il silenzio di Miles. Se qualcuno mi paragona a loro non posso che esserne felice.

Che posto ha il silenzio nella tua musica e nella vita?
PF È un elemento fondamentale per quanto non sia l’unico. Amo la musica silenziosa e la gente silenziosa. Forse perché vengo da una terra, la Sardegna, forgiata dai silenzi.

Qual è la spinta che ti porta a espandere i confini del jazz in ambiti completamente differenti?
PF Il jazz è libertà espressiva, improvvisazione, sperimentazione, ricerca. Forse la musica più sfuggente del Novecento e quella che si schiude a tutte le contaminazioni.

A che punto è la tua ricerca artistica?
PF Non ne ho idea. Direi che è una ricerca quotidiana: ogni giorno mi confronto con persone, luoghi e situazioni che inevitabilmente modificano il mio percorso. Ci sono molte cose che ruotano intorno alla musica e si alimentano vicendevolmente, di conseguenza stimolano e arricchiscono continuamente la mia vita professionale e personale.

Oltre che musicista e compositore sei anche produttore e scrittore. Avverti mai il pericolo dell’eclettismo come distrazione, superficialità, perdita d’identità?
PF In realtà mai. Nel senso che nell’eclettismo non mi confronto con il pubblico e dunque faccio sostanzialmente ciò che mi piace. Che poi le scelte siano giuste o meno, è un altro discorso. Il rischio della perdita dell’identità è pari alla quantità di cose che fai e che ami.

Ci sono nel nostro Paese alcune manifestazioni mirate a far emergere nuovi talenti. Trovi siano importanti?
PF Abbiamo un jazz di grande qualità, senz’altro tra i più ricchi, creativi e variegati del Pianeta, con giovani talenti che suonano benissimo. Purtroppo c’è poco spazio e poca attenzione da parte delle istituzioni e di certe realtà concertistiche. Ben venga dunque tutto ciò che può essere utile per investire sulle nuove leve: è quello che stiamo cercando di fare anche con la Midj (Associazione dei musicisti italiani di jazz), con concorsi e residenze all’estero.

“La musica è uno straordinario veicolo per crescere e contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Ambiente, sostenibilità e coscienza politica sono cose in cui credo profondamente e come musicista mi impegno affinché la musica diventi un tramite per mettere in atto delle buone pratiche”

Qual è il tuo rapporto con la scrittura?
PF Mi è sempre piaciuto scrivere. Ho iniziato con brevi testi, poesie, prefazioni per libri e cataloghi, articoli e liner notes per i cd degli amici. Credo che scrivere sia una prerogativa dei sardi che si raccontano ancora con la poesia improvvisata e con le quartine in limba. Qualche anno fa ho iniziato ad annotare pensieri ed esperienze personali. Proprio in quel periodo la Feltrinelli mi chiese di scrivere qualcosa e così ho cominciato a lavorare sui miei appunti che poi sono diventati “Musica dentro”. È stata una bizzarra e felice concomitanza che mi ha permesso di raccontarmi.

Molte tue idee melodiche sono di un’intensità non comune. Quanto pesa il lato romantico nell’improvvisazione?
PF L’emozione è fondamentale. Se non c’è, alla fine di un concerto ho come la sensazione di aver perso un’occasione. Solitamente si è abituati a mettere in relazione il romanticismo con la melodia, e io sono un musicista che ama la melodia. Tuttavia penso che essa offra un’infinita palette di mood e di emozioni. Il romanticismo è una di queste ma non è l’unica. La bellezza, per esempio, che mi appassiona e in cui trovo una poesia intensa. Poi c’è la gioia e la malinconi, forse il tratto che più mi appartiene anche se non mi ritengo una persona troppo malinconica. Quello che mi interessa in tutto questo bisticcio emozionale è sempre e comunque il desiderio di conoscenza.

Perché ti esibisci spesso in solitudine?
PF È un modo per ritrovarmi e al tempo stesso una sfida. Spingere la musica in una direzione sconosciuta, ampliare le capacità dello strumento o degli strumenti grazie anche all’uso dell’elettronica, in un luogo completamente acustico. In fondo con una nota si può raccontare il mondo e un suono acustico naturale può regalare emozioni uniche.

Dal 1988 organizzi a Berchidda (SS), il paese dove sei nato, Time in Jazz. In Sardegna ci sono anche Cortes Apertas, le Primavere del Marghine, dell’Ogliastra e della Baronia. Che ruolo hanno? Quali strategie o idee di sistema ci vorrebbero?
PF Le varie esperienze culturali che si radicano con successo in alcune realtà periferiche dimostrano quanto ci sia veramente da fare. Il laboratorio di Berchidda con il suo festival internazionale Time in Jazz, ma anche le iniziative del Centro Laber, la Casara e tutta un’altra serie di attività, dimostrano che l’impossibile può diventare possibile. È importante però la sinergia tra cittadini e istituzioni. Time in Jazz non sarebbe possibile senza l’impegno e la passione di centinaia di volontari. In questo modo si riscoprono e rivitalizzano valori dimenticati o soltanto assopiti. Incentivando poi il turismo sostenibile e generando una economia contemporanea queste realtà possono e devono diventare un volano di crescita.

Sei in tour oltre duecento giorni l’anno: che cosa significa per te viaggiare?
PF Vivere, scoprire, appassionarsi. Quando sono in viaggio scrivo, compongo musica, penso a nuovi progetti. È una straordinaria opportunità per vedere le cose da un altro punto di vista e conoscersi meglio.

Il 4 settembre scorso la rassegna “Il jazz italiano per l’Aquila”, di cui sei direttore artistico, è diventata “Il jazz italiano per Amatrice”; un formidabile e urgente slancio di solidarietà nei confronti delle popolazioni colpite dal sisma del 24 agosto.
PF Siamo stati per la prima volta a l’Aquila lo scorso anno: in molti si erano dimenticati del sisma del 2009. Seicento musicisti per oltre cento concerti nel centro storico: 12 ore di musica per 60mila persone. Quest’anno eravamo pronti con oltre 750 musicisti e 110 concerti in oltre venti luoghi. Poi c’è stato il terribile terremoto del 24 agosto: non potevamo tirarci indietro; “Il jazz Italiano per l’Aquila” è diventato “Il jazz Italiano per Amatrice e per gli altri luoghi distrutti dal sisma”. Abbiamo subito organizzato concerti più di 25 città, da Courmayeur a Lampedusa, passando per Roma e chiudendo simbolicamente a l’Aquila davanti alla splendida Basilica di Collemaggio. Ci hanno seguito 70mila persone: il ricavato è andato alla ricostruzione del Teatro di Amatrice.

È noto il tuo impegno ambientalista: molti tuoi concerti si svolgono in luoghi naturali e gli strumenti che utilizzi sono alimentati da energia solare.
PF La musica è uno straordinario veicolo per crescere e contribuire alla costruzione di un mondo migliore. Ambiente, sostenibilità e coscienza politica sono alcune delle cose in cui credo profondamente e come musicista mi impegno affinché la musica diventi un tramite per mettere in atto delle buone pratiche.

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