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Fortugno – Ae 67

Per chi ha scelto di vivere in questa terra, per chi più volte ha pensato di scappare, ma poi è restato, vedere la Calabria conquistare la prima pagina dei giornali per un omicidio eccellente è doloroso. E deprimente. L’omicidio di…

Tratto da Altreconomia 67 — Dicembre 2005

Per chi ha scelto di vivere in questa terra, per chi più volte ha pensato di scappare, ma poi è restato, vedere la Calabria conquistare la prima pagina dei giornali per un omicidio eccellente è doloroso. E deprimente.
L’omicidio di Franco Fortugno, vicepresidente del Consiglio regionale calabrese, ha avuto l’effetto di una botta in testa, secca, imprevista, devastante. È vero che negli ultimi anni si era riaperta la catena degli omicidi di ‘ndrangheta, che centinaia di rappresentanti degli enti locali avevano subìto chi un attentato, chi una minaccia, chi un avvertimento, ma non si era ancora arrivati a colpire le istituzioni in maniera così diretta.

Partiamo da una constatazione: l’omicidio Fortugno, per i tempi e le modalità con cui è stato eseguito, rappresenta un omicidio politico, il primo omicidio squisitamente politico che la ‘ndrangheta abbia commesso in Calabria. La vittima, Franco Fortugno, camminava senza scorta e senza paura, non aveva poteri specifici, era un esponente dell’anima popolare della vecchia Dc. Se avesse avuto un “contenzioso” con la criminalità organizzata l’avrebbero fatto fuori in altro modo e non davanti ad un seggio elettorale, alle cinque del pomeriggio di domenica, nel cuore del centro urbano di Locri.

Un messaggio politico chiaro per la giunta regionale ed il suo presidente: noi ci siamo e vogliamo contare. Un messaggio politico che impone una riflessione politica a partire dall’abbandono di un linguaggio obsoleto che prevale nelle analisi sulla ‘ndrangheta, la mafia o la camorra.

Se, infatti, passiamo da un’analisi locale ad una globale del fenomeno, scopriamo che in varie parti del mondo -dalla Colombia alla Russia, dalla Nigeria alla Cina, dall’Albania all’Ucraina- quella che ordinariamente viene definita “organizzazione criminale” è in realtà una nuova classe sociale che ha conquistato una parte rilevante del potere economico e finanziario nazionale.

Da anni alcuni studiosi del fenomeno, come Umberto Santino del Centro Impastato di Palermo, parlano di “borghesia mafiosa” nei termini di una nuova classe sociale, dotata di una forte coscienza di sé, che va ben oltre il braccio armato di cui si serve quando le altre strade sono precluse. Uno studioso come Jean Ziegler, che vive nella sonnacchiosa Svizzera, ha lanciato l’allarme alcuni anni fa nel suo Les seigneurs du crime (ed. du Seuil, Paris, 1998): “Per la sua forza finanziaria gigantesca, la criminalità organizzata guadagna segretamente un’influenza sempre più importante sulla nostra vita economica, sociale e politica, ma anche sulla giustizia e sull’amministrazione pubblica” (p. 278).

L’appello di Ziegler a svegliarsi per salvare la democrazia è caduto nel vuoto. Forse il limite dell’approccio di Ziegler è quello di non essersi accorto che la “criminalità organizzata” si è trasformata in una classe sociale che ha già conquistato una parte importante delle istituzioni in molti Paesi, sia nell’Est come in Occidente. Una volta arrivata al potere non ha bisogno più di uccidere, ma si serve dello Stato, come la borghesia europea durante la rivoluzione industriale, per eliminare gli ostacoli al suo definitivo insediamento. Essa trova dei potenti alleati tanto nella borghesia finanziaria quanto in quella che Melman, nella sua analisi sull’economia di guerra negli Usa, chiama la classe che controlla più i mezzi di distruzione che i mezzi di produzione (leggi: apparato militare-industriale).  

Paradossalmente bisognerebbe preoccuparsi della ‘ndragheta più a Milano o Ginevra che a Reggio Calabria. I ceti produttivi del Nord, le organizzazioni dei lavoratori, le forze autenticamente democratiche dovrebbero prendere coscienza della pericolosità di questo fenomeno e costruire una nuova alleanza con le forze democratiche del Mezzogiorno schierate in prima fila nella lotta contro la borghesia criminale. Sono questi i nuovi termini della questione meridionale

nel XXI secolo.

Tonino Perna

Per cinque anni, fino allo scorso gennaio, è stato un sociologo prestato all’ambiente.

Docente di Sociologia economica all’Università di Messina, è stato infatti presidente del Parco nazionale dell’Aspromonte.

Calabrese che ha scelto di restare in Calabria è autore tra l’altro, per Bollati Boringhieri, di un volume sull’Aspromonte e sul ruolo dei parchi nazionali nello sviluppo locale, ma anche di uno dei primi testi sul fair trade in Italia.

È tra i padri fondatori del giornale che state leggendo.

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