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Approfondimento

Forme di razzismo

Le politiche migratorie europee segnano una nuova forma di totalitarismo. Parola di Boris Pahor, scrittore sopravvissuto ai lager nazisti Boris Pahor ha attraversato il Novecento con lo sguardo speciale di chi vive la condizione della minoranza nazionale in epoche tempestose,…

Tratto da Altreconomia 113 — Febbraio 2010

Le politiche migratorie europee segnano una nuova forma di totalitarismo. Parola di Boris Pahor, scrittore sopravvissuto ai lager nazisti

Boris Pahor ha attraversato il Novecento con lo sguardo speciale di chi vive la condizione della minoranza nazionale in epoche tempestose, sferzate dal fascismo, dal nazismo, dai nazionalismi. Vale la pena di ascoltarlo quando intravede all’orizzonte i segni di nuove forme di totalitarismo, o quando preconizza la necessità di liberarsi dalla ferrea presa del capitale, che è tornato a stringere in pugno le nostre vite.
Triestino di lingua e cultura slovena, classe 1913, quindi nato suddito di Francesco Giuseppe imperatore d’Austria e re d’Ungheria, Pahor è diventano celebre in Italia dopo i novant’anni, grazie alla tardiva traduzione in italiano (nel 2008, grazie all’editore Fazi) del suo libro più noto, Necropoli, il racconto doloroso e profondo del ritorno a distanza di vent’anni nel campo di concentramento in cui i nazisti lo avevano rinchiuso. Oggi Pahor osserva la notorietà raggiunta in Italia con decenni di ritardo senza rancori: il successo letterario, oltre che nella cultura madre, gli è stato riconosciuto in Francia e Germania ben prima che il nostro Paese arrivasse a conoscerlo. È appagato come scrittore, non altrettanto come cittadino: ha appena declinato una benemerenza che il Comune di Trieste voleva attribuirgli, e lo stesso ha fatto di recente con lo Stato italiano. In entrambi i casi ha messo una condizione per accettare l’onorificenza: che sia menzionata, nelle motivazioni ufficiali, l’oppressione della minoranza slovena in Venezia Giulia durante il fascismo. Non se ne è fatto niente. Per il momento il professor Pahor, una vita spesa come docente di lettere italiane e slovene nelle scuole triestine, deve accontentarsi -si fa per dire- della Legion d’Onore che la Francia gli ha attribuito nel 2007.
Professor Pahor, lei ha dedicato una vita ai diritti delle minoranze nazionali. Oggi in Europa altre minoranze sono in pericolo: i lavoratori stranieri, i rom. Che futuro ci aspetta?
Lottiamo almeno dal ‘66 perché i singoli Stati riconoscano le minoranze nazionali al loro interno. Oggi ce ne sono dodici che hanno ottenuto questo riconoscimento, ma altri gruppi aspettano, in qualche caso da secoli. In Europa abbiamo ancora 30 milioni di persone impossibilitate a parlare liberamente la propria lingua. Non possiamo dimenticarlo di fronte alla questione degli immigrati, altrimenti commetteremmo lo stesso errore compiuto dopo la sconfitta del nazismo: si è parlato dell’olocausto degli ebrei, ma si è sottaciuta la sorte dei “triangoli rossi”, i tre milioni e mezzo di deportati politici, di cui ho scritto in Necropoli. Sono persone che sono state perseguitate per le loro idee e si sono battute per la libertà. È importante farlo sapere ai giovani, specie con l’atmosfera fosca che si sta formando nelle nostre società. Ci sono chiare tendenze a sminuire quel che sono stati il fascismo e il nazismo.
Non crede che la condizione dei migranti sia il nodo cruciale per il futuro della democrazia in Europa?
Dico subito, come premessa, che gli Stati più potenti dovrebbero fare tutto il possibile perché in Africa e altre zone del mondo si sviluppino delle economie forti, in modo che non ci sia il bisogno per tanta gente di lasciare il proprio Paese. Chi è costretto ad emigrare, deve lasciare la propria patria, la propria lingua e magari far dimenticare ai figli le proprie origini, in modo da farli diventare francesi, o italiani, o tedeschi.
Questo non è uno sviluppo sano, naturale. Se c’è sradicamento, è comprensibile -anche se sbagliato- che esploda la violenza, com’è accaduto in tante banlieue in Francia. Detto questo, quando si dice che gli stranieri vanno controllati e temuti, che la propria città, la propria nazione devono restare pulite, alla fine si arriva sempre a una forma di dittatura.
L’avversione per i lavoratori stranieri è una forma di nazionalismo?
A forze di dire “non vogliamo gli immigrati, perché sono sporchi, pericolosi, diversi da noi” si arriva a una forma di nazionalismo che si trasforma in razzismo.
Ma io non credo, voglio chiarirlo, che la globalizzazione, le unioni fra Stati e così via conducano verso un’identità mondiale che azzera le nazionalità. Nessuno può convincermi che perdere la propria identità nazionale in favore di un’identità mondiale sia un bene per il futuro. Ogni lingua corrisponde a una specifica forma di conoscenza del mondo, come hanno dimostrato i linguisti. È un patrimonio che non può essere disperso. Levi Strauss è arrivato a dire che nessuna cultura è minoritaria rispetto a un’altra. Questo non è nazionalismo, ma coscienza nazionale, anche se in Italia è difficile far capire che le due nozioni sono profondamente diverse. Il nazionalismo è sempre contro qualcuno.
Lei ha vissuto lungo un confine che per decenni è stato l’inizio della cortina di ferro. Poi il socialismo reale si è estinto. Che futuro vede per l’Europa?
Sono molto impressionato dalla crisi economica attuale: dimostra che siamo di nuovo in mano al capitale. All’origine di quanto sta accadendo, non c’è una volontà nazionale, o una concezione della vita, c’è il denaro, il capitale, c’è il fallimento delle banche. Ora si dice: tappiamo i buchi e ricominciamo. Ma l’unico modo sensato di affrontare la situazione, sarebbe la costruzione di una società più giusta. Invece di cercare l’acqua sulla Luna, dovremmo pensare a chi muore di sete in Africa. Gli uomini fanno progetti nello spazio per dimostrare d’essere capaci di verificare quel che accade lontano dalla Terra, ma intanto la mandano in malora. Siamo sconclusi.
È possibile pensare a un sistema economico e sociale diverso dal capitalismo?
Io credo che ci vorrebbe una socialdemocrazia alla maniera scandinava. Purtroppo i fallimenti del Novecento fanno sì che non abbiamo un esempio di socialismo democratico da proporre alla gente.
In Francia, in sanatorio, alla fine della guerra, studiavo Sartre, che ha tentato in tutte le maniere di salvare la concezione nata con la Rivoluzione d’ottobre: l’idea di affermare la giustizia sociale in un Paese grande come la Russia. Ma il socialismo lì è fallito. Sartre ci ha provato con la Jugoslavia, poi con Cuba: ma tutte le speranze si sono tradotte in dittature, prigioni e campi di concentramento.
E nessuno può accettarlo, neanche a fin di bene. Oggi, senza esempi positivi di altri modelli sociali, ci troviamo deboli e divisi. In Francia due donne competono per la guida del partito socialista e intanto la destra va al potere.
In Italia l’estrema sinistra ha buttato giù due governi Prodi, uno con l’aiuto di D’Alema, l’altro senza; il Partito democratico cerca in tutti i modi di avvicinarsi alla destra per riempire con gente di destra la sua democrazia, ma si taglia le gambe da solo, perché non è sinistra e neanche una vera destra, che del resto c’è già. Il problema è che quando le sinistre si spezzano, la destra vince: è sempre successo così, anche con Hitler e con Mussolini. Sta accadendo di nuovo. Certo, oggi non ci sono fascismo e nazismo, ma nemmeno una destra classica, che in fin dei conti si potrebbe anche accettare.

L’Italia lo scopre a 95 anni
Boris Pahor si definisce “scrittore sloveno di cittadinanza italiana”. A sette anni, nel 1920, assiste all’incendio per mano fascista del Narodni Dom, sede delle istituzioni culturali slovene a Trieste: l’episodio è rievocato nel libro Il rogo nel porto (1959, Zandonai 2008). Laureato in Lettere a Padova, arruolato nel ‘40 e inviato a combattere in Libia, al ritorno a Trieste si unisce al movimento di resistenza sloveno, con i cristiano-sociali. Viene arrestato nel ‘44 e inviato in vari campi di concentramento (Dachau, Dora, Bergen-Belsen, Natweiler-Struthof). Necropoli esce nel 1967: nel ‘97 è tradotto dal Consorzio culturale del Monfalconese, ma la prima edizione nazionale è per Fazi nel 2008. Qui è proibito parlare (1964, Fazi 2009) è ambientato nella Trieste slovena oppressa dal fascismo. Primavera difficile (1958, Zandonai 2009), largamente autobiografico, racconta il difficile ritorno alla vita di un ex internato nei lager nazisti. Tre volte no (Rizzoli 2009) è un libro di memorie in forma di dialogo con Mila Orlic.

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