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Economia / Opinioni

Debito pubblico: il flop (preoccupante) della “chiamata alle armi”

© John Robert Marasigan - Unsplash

L’asta del “Btp Italia” che si è conclusa giovedì scorso è stata un disastro. Il problema per il nostro Paese non è rappresentato dall’ostilità europea ma dalla scarsa fiducia dei risparmiatori italiani. Quando devono fare scelte di investimento, infatti, sembrano essere assai più freddi verso il governo di quanto non emerga dai sondaggi. L’analisi di Alessandro Volpi

L’appello al patriottismo questa volta, in modo molto preoccupante, non ha funzionato. Per affrontare lo spinoso tema del finanziamento del debito pubblico, il Tesoro italiano ha concepito nel tormentato 2012 un’obbligazione costruita proprio per scaldare il cuore dei risparmiatori “nazionali”, in quel momento angustiati dalla crisi greca e spagnola e dai suoi possibili effetti sul nostro paese.

Si tratta del “Btp Italia”, un titolo indicizzato all’inflazione, emesso da allora ben 14 volte sempre con un grande successo, che ha consentito di raccogliere oltre 140 miliardi di euro. L’asta che si è conclusa giovedì scorso invece è stata un vero e proprio disastro, certamente inatteso almeno per le proporzioni assunte. Sono stati, infatti, venduti alla platea retail dei piccoli risparmiatori e delle famiglie titoli Btp, con scadenza al 2022, per soli 863 milioni di euro, a cui si sono aggiunti 1,3 miliardi di euro collocati presso gli investitori istituzionali: un risultato finale assai lontano dagli oltre 7 miliardi sperati dal Tesoro e superiore solo alla prima asta del giugno del 2012, quando la bufera finanziaria in atto bloccò la vendita a 1,7 miliardi di euro. Eppure la proposta era assai allentante con una cedola minima garantita dell’1,45%, la più alta degli ultimi 4 anni, che significa un rendimento del 2,6%, e con una tassazione al 12,5%. Tutto ciò non è bastato a convincere, però, i risparmiatori che sono rimasti molto cauti.

In questo senso la vicenda del Btp Italia dimostra che il problema per il nostro Paese non è rappresentato dall’ostilità europea e dall’eventuale ipotesi di procedura d’infrazione, comunque molto lontana nel tempo. Le vere criticità dipendono, in buona parte, dalla scarsa fiducia dei risparmiatori italiani che, quando devono fare le proprie scelte di investimento, sembrano essere assai più freddi verso il governo di quanto non emerga dai sondaggi; a meno che i risparmiatori non appartengano tutti all’opposizione. Purtroppo la sfiducia verso i titoli del debito ha, invece, alcuni elementi fondati; da febbraio i rendimenti del Btp decennale, il titolo di riferimento degli spread, è salito dal 2 al 3,5%, con una perdita di prezzo pari al 12% e, soprattutto, tali titoli, per effetto del declassamento delle agenzie di rating e per la vera e propria fuga degli investitori internazionali, hanno assunto un profilo di rischio decisamente più alto, tanto da obbligare gli intermediari finanziari al momento della loro vendita alla clientela retail non solo di fare presente l’aumentato livello di rischio ma anche di chiedergli di sottoscrivere una preoccupante liberatoria destinata a scaricare lo stesso intermediario di ogni responsabilità derivante dall’investimento in questione; dal dicembre del 2012, infatti, in attuazione di una norma comunitaria, un decreto del ministero dell’Economia e delle Finanze prevede che ai titoli del debito italiano con scadenza superiore ai 12 mesi siano applicate clausole per effetto delle quali il Tesoro può rinegoziare unilateralmente con gli investitori sia gli interessi sia le scadenze fissate all’atto di vendita.

È ovvio che in simili condizioni i titoli del debito pubblico italiano hanno cessato di essere i più adatti a una clientela di piccoli risparmiatori, assai prudenti, che ha finito inevitabilmente per abbandonarli, magari scegliendo altre offerte, meno critiche, provenienti da paesi più solidi. La mancata sottoscrizione del Btp Italia è quindi, davvero, un cattivo segnale sia perché dimostra la già ricordata sfiducia degli italiani sia perché mette in luce le connesse difficoltà di collocamento del nostro debito che deve pagare rendimenti così alti da bruciare le risorse della manovra finanziaria e, comunque, da annullarne gli effetti. Peraltro, come accennato, la resistenza dei risparmiatori nostrani non sta emergendo solo verso il patriottico “Btp Italia” ma, più in generale, verso gli investimenti in quanto tali, se è vero, come dimostrano gli ultimi dati, che solo il 35% degli italiani investe a fronte di un avvertibile incremento del numero di coloro che sono riusciti a risparmiare nel corso degli ultimi 12 mesi, saliti al 39% contro il 28% del 2012. Dunque, pur in presenza di un aumento dei risparmiatori, si riduce la disponibilità a cercare impieghi a tali risparmi che restano sempre più nei conti correnti oppure si indirizzano verso titoli esteri. Certo, con una platea di titolari di risparmi così renitente alla “chiamata alle armi” e così distante dalla bellicosa fiducia del sovranismo “autosufficiente” sarà davvero complicato nel 2019 trovare i 509 miliardi di euro per coprire il fabbisogno di titoli del debito pubblico da collocare, a cominciare dalla raffica di Bot da piazzare che sembrano aver perso i loro tradizionali “Bot people”.
Aver coltivato la paura e lo scontro, come architrave del nuovo linguaggio politico, ha finito per rendere paurosi gli italiani quando è in gioco il loro tanto faticoso risparmio.

Università di Pisa

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