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Il fisco italiano dieci anni dopo la crisi. Ecco chi ha tenuto in piedi il Paese

Chi ha pagato le conseguenze più pesanti della grande recessione? Dai lavoratori dipendenti alle imprese, dal boom dei tributi immobiliari locali alle imposte sui giochi. La progressività fiscale -prevista dalla Costituzione- è sempre più indebolita. Il commento di Alessandro Volpi

Quali sono stati gli effetti della crisi, iniziata nel 2008, sul fisco italiano? Chi ha pagato le conseguenze più pesanti della grande recessione? Si tratta di domande centrali per capire le dinamiche del quadro economico italiano e soprattutto per mettere a fuoco i limiti di un sistema difficilmente modificabile e, tuttavia, assai iniquo.

L’ossatura portante dei tributi italiani è costituita dall’IRPEF (Imposta sul reddito delle persone fisiche) che produceva un gettito di circa 181 miliardi di euro nel 2008 e ne ha generati quasi 182,5 nel 2017, con un incremento dell’1,3%, a cui vanno aggiunti gli aumenti dell’addizionale regionale IRPEF, salita da 9 a 12 miliardi, e dell’addizionale comunale IRPEF, passata da 3 a 4,5 miliardi di euro nel medesimo arco di tempo.
L’imposta sulle persone fisiche ha garantito quindi un gettito corposo e costante, in grado di sorreggere la finanza pubblica, con un calo soltanto nel periodo più acuto dal 2012 al 2014, anno in cui il gettito è sceso a poco più di 165,2 miliardi. Oltre che dall’IRPEF, le entrate fiscali sono provenute dall’IVA (Imposta sul valore aggiunto), che, mai fatta lievitare dalle clausole di salvaguardia europee, è scesa da 132,3 a 127,9 miliardi di euro, con una flessione del 3,3 per cento. Il combinato disposto di questi due dati suggerisce una prima conclusione; i conti pubblici sono stati sostanzialmente tenuti in piedi dai lavoratori dipendenti i cui redditi, proprio per la loro natura di contratti a tempo indeterminato, hanno retto alla crisi, consentendo loro di sostenere anche i consumi che, di fatto, non sono tracollati.

Significative invece sono state le riduzioni del gettito originato dalle imprese che hanno pagato gli effetti della crisi ma sono state beneficiate anche, in modo rilevante, dalle misure di alleggerimento normativo. L’IRES, l’imposta sul reddito delle società, infatti, è scesa dai quasi 53 miliardi dal 2008 ai 34,2 del 2017, con una contrazione di oltre il 35 per cento, mentre il gettito dell’IRAP è precipitato, nello stesso arco di tempo, da 42,2 a 23,5 miliardi di euro. In entrambi i casi si è trattato di una discesa tanto brusca quanto continua che, peraltro, non accenna a smettere. C’è poi un terzo elemento che emerge in maniera evidente dai numeri del fisco durante la grande crisi. Due voci sono cresciute sensibilmente per ragioni assai diverse.
Dal 2008 si è assistito al boom dei tributi immobiliari locali; ICI (Imposta comunale sugli immobili), IMU (Imposta municipale unica) e TASI (Tributo per i servizi indivisibili) sono lievitate dai 10 miliardi del 2008 ai 21 del 2017 con un incremento percentuale del 91,6 per cento. Le motivazioni di un simile boom sono però riconducibili alla scelta politica ben chiara di cancellare i trasferimenti pubblici agli enti locali, finanziati sulla fiscalità generale, obbligandoli non solo a sostenersi con imposte proprie ma anche costringendoli a svolgere le funzioni di esattori per conto dello Stato centrale. In altre parole le imposte locali hanno finanziato le spese generali dello Stato con una significativa differenza rispetto al passato rappresentata dal fatto che i tributi locali sono assai meno progressivi, e dunque meno giusti in termini di equità fiscale, rispetto alla fiscalità generale.

La progressività si è ridotta anche a causa della forte crescita della seconda voce delle entrate fiscali a cui si faceva riferimento sopra. Dal 2008 hanno cominciato a correre le imposte sui giochi, passate da 10 a poco meno di 14 miliardi nell’arco di tempo 2008-2017, così come sono salite le accise su energia, gas e carburanti, lievitate nello stesso periodo da 28,2 a 32,5 miliardi. Se a ciò aggiungiamo i 10 miliardi garantiti dall’imposta sui tabacchi, il miliardo e mezzo della tassa sugli alcolici e, soprattutto l’esplosione del gettito della cedolare secca sugli affitti che dai 711 milioni di euro del 2011, anno in cui è stata introdotta, ha raggiunto nel 2017 i 2,5 miliardi, risulta molto evidente che il principio redistributivo della progressività fiscale, previsto dalla nostra Costituzione e già indebolito dal peso delle tasse di registro che partoriscono circa 5 miliardi di euro e da quelle di bollo, da cui scaturisce un ammontare simile, si è molto affievolito. Un ultimo dato merita particolare attenzione: nonostante gli inasprimenti normativi, la crisi ha eroso il gettito dei prelievi sulle rendite finanziarie scese tra il 2008 e il 2017 da 13,6 a 8,6 miliardi. Se si leggono i numeri -facendo uso di una buona dose di amara ironia- bisogna concludere che durante la grande crisi l’Italia è stata tenuta in piedi da lavoratori dipendenti invecchiati, ma ancora attivi consumatori, dai fumatori e dagli automobilisti.

Università di Pisa

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