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Perché la fine dell’Europa non produrrà un’altra Europa

La campagna elettorale per le elezioni europee è già cominciata. Prevale lo “scontro epocale” tra europeisti e sovranisti e domina l’ostentazione della propria “identità” in contrasto con quella di altri. Ma qualsiasi tentativo di tenere insieme schieramenti composti da differenti “nazionalismi” risulta fragilissimo, suggerisce la storia. L’analisi di Alessandro Volpi

© Frederic Köberl

La lunga campagna per le elezioni europee è già cominciata e, da più parti, si attribuisce a tale consultazione un peso decisivo per il Vecchio Continente. Sembra così che si profili uno scontro epocale fra europeisti e sovranisti, una sorta di battaglia finale da cui dovrebbero scaturire i destini del futuro.
I sovranisti, in particolare, sostengono che il loro successo metterebbe fine all’Europa di Maastricht sostituita da un insieme di nazioni, ciascuna delle quali impegnata nel rivendicare il primato, pressoché assoluto, dei propri cittadini. In questa prospettiva, dominata dalla autoreferenzialità, tuttavia esiste una contraddizione di fondo confermata da vari esempi storici. Al di là dei caratteri specifici dei contenuti programmatici degli schieramenti in competizione, peraltro in un quadro non ancora definito, appare molto complesso immaginare che i nazionalismi sovranisti possano trovare reali punti in comune. È difficile pensare che forze politiche il cui slogan risulta sintetizzabile nella rigida affermazione delle pretese nazionali, sia in tema di blocco dell’immigrazione, sia di politiche doganali protezionistiche, sia di concorrenza fiscale, possano trovare punti veramente condivisi. In altre parole, una volta gridata l’ostilità all’attuale struttura europea ed espresso l’odio verso gli “euroburocrati” e nei confronti dell’euro, moneta artificiale e senza cuore, è praticamente impossibile per i sovranisti riconoscersi in un programma comune. I sovranismi nazionali infatti sono, per loro stessa definizione, inconciliabili perché non ammettono compromessi e non accettano forme di condivisione con altri nazionalismi.

Il gruppo di Visegrad o la destra nostalgica tedesca non possono certo accogliere il caldo invito del sovranismo italico fondato sul motto “prima gli italiani” ed anche l’idea che “ognuno sia padrone a casa propria” non permette reciproche aperture tra i vari Paesi né in materia di immigrazione, né in materia di dazi né, tantomeno, in tema di parziale rinuncia alle prerogative nazionali in nome di un progetto sovranazionale. Come accennato, la storia fornisce esempi numerosi in tal senso.

Nel 1925 furono del tutto vani gli esiti degli Accordi di Locarno che avrebbero dovuto normalizzare le relazioni fra Francia e Germania, dopo le feroci tensioni seguite alla prima guerra mondiale e all’occupazione francese della Ruhr. Nel 1933 il Patto a quattro fra Italia, Francia, Germania e Inghilterra, che doveva servire a mantenere la pace in Europa, non produsse alcun risultato, così come furono inutili il Fronte di Stresa nel 1934 e, soprattutto, la Conferenza di Monaco del 1938 con cui si intendeva scongiurare la seconda guerra mondiale. In tutte queste circostanze, l’ipotesi di accordi fra nazionalismi e regimi autoritari, ciascuno dei quali animato dalla volontà di difendere le proprie ambizioni di primato, si scontrarono proprio contro le singole pretese “irrinuciabili”.

Buona parte delle vicende del Novecento mette in luce, dunque, come non abbiano avuto spazio la diplomazia, il multilateralismo e neppure alleanze stabili tra Paesi governati da forze che fondano il proprio consenso sull’acceso sentimento di difesa degli interessi nazionali, destinato non di rado a sfociare nella ricerca della “superiorità”. La Germania di Hitler dopo aver condiviso con l’Italia di Mussolini l’Asse Roma-Berlino per fondare una visione del mondo retta dal binomio nazismo-fascismo, non esitò a firmare con la Russia di Stalin, nell’estate del 1939, il Patto di non aggressione, che prevedeva la spartizione della Polonia tra nazisti e comunisti.

Pur senza accostare i nuovi sovranismi ai regimi degli anni Trenta, tuttavia, è evidente che se un Paese costruisce il racconto pubblico e politico della propria “identità” in forte contrasto con quella di altri, qualsiasi tentativo di tenere insieme in maniera durevole e coerente schieramenti composti da differenti “nazionalismi” risulta fragilissimo. Per essere ancora più espliciti, se le elezioni europee vedessero prevalere le forze che si dichiarano sovraniste, è molto probabile, almeno in base all’esperienza della storia contemporanea, che l’attuale quadro dell’Europa, a cominciare dalla moneta, verrebbe cancellato per essere sostituito da un equilibrio molto instabile e, inevitabilmente conflittuale, di singoli attori in ordine sparso, incapaci di definire una linea comune e facile preda delle politiche internazionali di Stati Uniti, Cina e forse persino Russia. La fine dell’Europa non produrrebbe un’altra Europa.

Università di Pisa

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