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Economia / Opinioni

Legge di Stabilità: la strada stretta del Governo

Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte

“Se la via scelta dall’esecutivo è quella di non generare nuovo deficit e nuovo debito per finanziare la manovra, non basterà più affermare ‘prima gli italiani’, ma occorrerà dire anche di quali italiani si tratta”. L’analisi di Alessandro Volpi

Sembra che il governo Conte sia orientato a non sforare il vincolo europeo del rapporto tra deficit e Pil, concependo una manovra finanziaria che lo mantenga al di sotto del 3%. Si tratta di una decisone che, evidentemente, tiene conto delle tensioni emerse negli ultimi mesi nel collocamento dei titoli del debito italiano, i cui rendimenti stanno salendo in maniera assai pericolosa per i conti pubblici. Peraltro, mantenere il deficit poco al di sotto del 3% del Pil –“sfioreremo” ha dichiarato il ministro Salvini– non costituisce il pieno rispetto degli impegni europei che obbligherebbero l’Italia a raggiungere nel 2019 lo 0,8% e dunque, ancora una volta, il nostro Paese dovrà negoziare con l’Europa i margini di flessibilità necessari a non far scattare le clausole di salvaguardia.

fonte: Statistiche di finanza pubblica nei paesi dell’Unione europea – Banca d’Italia, 28 giugno 2018

Al di là di questo aspetto, non marginale, la decisione dell’esecutivo rappresenta un passaggio importante; per la prima volta, con chiarezza, si afferma che la manovra dovrà avvenire, di fatto, a saldi pressoché invariati. In altre parole, quelle misure, promesse nel “contratto di governo”, che la maggioranza intenderà realizzare dovranno essere finanziate, in larga parte, sottraendo risorse da altre voci del bilancio pubblico.
Si tratterà, quindi, di individuare delle priorità ben definite, accantonando la genericità delle ipotesi che avrebbero dovuto garantire tutto a quasi tutti. In particolare, per finanziare il reddito e le pensioni di cittadinanza sarà necessario specificare quali capitoli, presumibilmente di natura sociale e fiscale, risulterà indispensabile alleggerire. Certo, prima di procedere a questa operazione sarebbe altrettanto utile capire meglio l’entità del costo complessivo delle due misure in questione, dal momento che, solo per il reddito di cittadinanza, le stime oscillano tra i 15 e i 29 miliardi di euro, a seconda dei criteri di calcolo e degli indicatori utilizzati, per quanto ora circolino persino ipotesi per cui “basterebbero” 10 miliardi.

Ma, al netto di ciò, gli estensori della legge finanziaria dovranno, come accennato, fare delle scelte su alcune questioni centrali.
1) Per finanziare il reddito di cittadinanza si dovrebbe mettere mano al sostanziale smantellamento delle politiche attive del lavoro, costruite negli ultimi anni. Sarà necessario eliminare infatti le varie forme di ammortizzatori sociali esistenti, finalizzati al reinserimento lavorativo degli espulsi dai processi produttivi, dalla Naspi, all’Adi, ai “discoll”, per un totale di circa 950 milioni di euro. Sarà necessario eliminare i cosiddetti “interventi di attivazione condizionata”, rivolti ai giovani, per un totale di circa 2 miliardi di euro. Sarà necessario inglobare nel reddito di cittadinanza anche i 2,75 miliardi destinati al già avviato reddito di inclusione (Rei), con il rischio di forti rallentamenti burocratici e dell’esigenza di avviare nuove procedure, con inevitabili ritardi. Per recuperare circa 6 miliardi, se questa sarà la strada adottata, il governo dovrà dismettere l’idea che per la ricerca di un lavoro o di una nuova occupazione siano necessarie, appunto, politiche attive di formazione per sostituirla con una formula che chiede al beneficiario solo di conoscere quale sia il suo reddito, senza preoccuparsi se, dopo avergli erogato il sussidio, sarà in grado di trovare un posto nel mercato del lavoro. Nello stesso modo, la pensione di cittadinanza, erogata a prescindere dai contributi, verserà un assegno di 780 euro a tutti con l’effetto di penalizzare senza dubbio chi i contributi li ha versati.

2) I 6 miliardi di euro a cui si faceva riferimento tuttavia non bastano a finanziare reddito e pensioni di cittadinanza. Un’ipotesi ricorrente per colmare la differenza è rappresentata dal bonus degli 80 euro, introdotto dal governo Renzi, che costa poco più di 9 miliardi, a cui aggiungere la soppressione del bonus per l’acquisto di beni culturali che grava sul bilancio pubblico per 290 milioni. Anche in questo caso, quindi, il binomio Lega-M5stelle si troverebbe di fronte a una scelta e dovrebbe prendere la decisione di penalizzare una fetta importante del ceto medio italiano, beneficiato dai bonus, per sostenere le fasce più povere della popolazione, con uno spostamento di risorse non banale.

3) Nella medesima ottica, di cercare coperture alla misure promesse togliendole da altre voci, il governò dovrà fare i conti con l’esigenza di limitare almeno alcune delle forme di “sconto fiscale” di cui beneficia una vasta platea di contribuenti italiani. Si potrebbero recuperare ad altri fini i 3,7 miliardi di esenzioni garantite ai proprietari di prime case, o ai 3,5 miliardi di esenzione Tasi sempre sulla prima casa. Oppure eliminare le detrazioni sugli interventi di riqualificazione energetica, in grado di partorire un risparmio di 1,6 miliardi, oppure ancora, limare le detrazioni per le spese mediche e sanitarie che quotano quasi 3,2 miliardi. Si tratta di scelte che comunque andranno fatte anche se venisse perseguita la strada della “pacificazione fiscale”, i cui introiti oscillano secondo le stime da 3 a 25 miliardi di euro annui secondo le mirabolanti previsioni di qualche sottosegretario, perché misure come il reddito di cittadinanza vanno a regime e non possono essere finanziate con “una tantum”.

In sostanza, se la strada è quella di non generare nuovo deficit e nuovo debito per finanziare la manovra, non basterà più affermare “prima gli italiani”, ma occorrerà dire anche di quali italiani si tratta.

Università di Pisa

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