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Diritti / Attualità

In Bosnia i figli dimenticati della guerra lottano per diritti e identità

Ajna e gli altri. Ajna Jusić, 26 anni, studia psicologia a Sarajevo. Aveva quindici anni quando ha scoperto che sua madre era sopravvissuta a uno stupro di guerra. Nel 2019 ha deciso di uscire dall’invisibilità e partecipare al progetto fotografico “Breaking free” © Sakher Almonem - “Breaking free”

Sono nati dagli stupri commessi durante il conflitto con la Serbia dai soldati nemici e dai “caschi blu”. Il Paese non li riconosce, oggi si raccontano e chiedono di essere accettati

Tratto da Altreconomia 226 — Maggio 2020

Li chiamano Zaboravljena Djeca Rata, i figli dimenticati della guerra. Nati durante il conflitto che ha segnato la Bosnia ed Erzegovina tra il 1992 e il 1995, sono i “figli invisibili” degli stupri compiuti dai soldati nemici o da “caschi blu” dell’Onu e operatori umanitari che se ne sono andati fuggendo dalle loro responsabilità. Hanno certificati di nascita compilati a metà o cognomi stranieri, che rimandano a Paesi in cui non hanno mai messo piede. I segni del conflitto sono scritti nel loro dna ma per lo Stato, che rifiuta di riconoscerli come vittime di guerra, rimangono tracce sommerse di un trauma ancora difficile da rielaborare. Durante il conflitto in Bosnia, lo stupro era usato in maniera sistematica come arma di distruzione e pulizia etnica e si stima che un numero compreso tra 30mila e 50mila donne, ragazze e uomini abbiano subito violenza. Anche se ricostruire con certezza quanti siano è impossibile. Da queste violenze sono nati dei bambini, che oggi hanno tra i 23 e i 27 anni e che spesso sono disconosciuti dai propri padri e rifiutati dalle comunità in cui sono cresciuti. Alcuni di loro si sono riuniti in un’associazione, la Forgotten children of war association (facebook/zaboravljenadjecarata), si sono dotati di un’assistente legale e dal 2017 chiedono alla società bosniaca di essere accettati e di riconoscere i loro diritti.

“Andavo al liceo quando ho scoperto i referti di mia madre, dove i medici si erano appuntati tutto quello che era successo, le violenze, le ferite. Ero sola a casa e ho letto tutto. Non sapevo più chi fossi”. A guidare l’associazione è Ajna Jusić, 26 anni, che studia psicologia a Sarajevo. Aveva quindici anni quando ha scoperto che sua madre era sopravvissuta a uno stupro di guerra. E ancora oggi è costretta a fare i conti con quanto accaduto, tutti i giorni: negli uffici dell’università, davanti al suo medico, allo sportello della sua banca. In quasi tutti i documenti ufficiali, in Bosnia, è obbligatorio indicare il nome del padre. Quello della madre non basta. E per chi è costretto a lasciare quel campo vuoto, fare domanda per una borsa di studio, ad esempio, o richiedere un sussidio alle autorità può diventare impossibile. “Siamo costretti a dare spiegazioni ogni giorno, a dire agli impiegati degli uffici pubblici che le nostre madri sono state violentate e che non sappiamo chi siano i nostri padri. Noi chiediamo di non essere discriminati e di essere riconosciuti dalle autorità come vittime civili di guerra perché così avremmo maggiori tutele”.

A portare avanti la battaglia di Ajna c’è anche Jelena Čajić, che si sente abbandonata dallo Stato: “Con noi ha fallito, non è stato in grado di garantirci lo status di bambini nati dal conflitto e ci ha lasciati soli con le nostre continue domande”. E poi c’è Alen Muhic, 25 anni, infermiere. Abbandonato dalla madre all’ospedale di Goražde pochi giorni dopo aver partorito, per anni a scuola si è sentito etichettato come figlio del nemico: un “bastardo serbo”, un “figlio dei cetnici” da cui stare alla larga, senza capirne mai il perché. In tanti, come lui, fin da bambini hanno ricevuto minacce e insulti: “Sono le vittime a essere giudicate, lo sono ancora”. Anche per questo, nonostante si stimi che i bimbi nati dalla guerra possano essere oltre duemila, solo in una quarantina hanno trovato la forza di contattare l’associazione.  A metterci la faccia poco più di dieci.

In Bosnia, in quasi tutti i documenti ufficiali è obbligatorio indicare il nome del padre. Per chi non può farlo, ed è costretto a lasciare uno spazio vuoto, può diventare impossibile fare domanda per una borsa di studio oppure richiedere un sussidio alle autorità © Breaking Free

Nel 2019 Ajna, Alen, Jelena e altri “figli dimenticati” hanno deciso di uscire dall’invisibilità e affrontare a viso scoperto le proprie comunità con un progetto fotografico che ha cristallizzato le loro storie e i loro volti. Per raccontarsi in pubblico, senza vergogna, come figli e come madri. Per molti di loro era la prima volta. Gli scatti di “Breaking free”, realizzati insieme al fotografo franco-siriano Sakher Almonem (sakheralmonem.com), sono stati esposti a Serajevo, poi a Tuzla, Srebrenica e Vienna. “Raccontiamo di battaglie combattute in silenzio in una società intrisa di stigma e discriminazione per andare al di là dell’invisibilità legale e sociale”, spiega Ajna. “Perché i nostri diritti sono rimasti ignorati e negati”. In Italia la mostra è stata portata in anteprima al Binario49 (b49.it) di Reggio Emilia a ottobre 2019 e poi a Seneghe, in provincia di Oristano, fino allo scorso marzo. Ma Iscos Emilia-Romagna (iscosemiliaromagna.org), l’istituto sindacale per la Cooperazione allo sviluppo della Cisl, ne ha promosso una versione italiana insieme a Forgotten children e la sta mettendo a disposizione gratuitamente a tutte le realtà che vorranno ospitarla.

“Siamo costretti a dire agli impiegati degli uffici pubblici che le nostre madri sono state violentate e che non sappiamo chi siano i nostri padri” – Ajna Jusić

La cosa più importante di questi scatti, spiegano però i ragazzi, sono le madri, le “sopravvissute”. Per una volta, in una società “patriarcale” come quella bosniaca, hanno avuto la possibilità di guardare in camera e raccontare con gli occhi la loro versione della storia. “Accettare la gravidanza è stato più difficile che la violenza in sé, portare dentro di te questa ‘cosa’ che ti ricorda ogni secondo ciò che ti è accaduto.” Sabina è la madre di Ajna e racconta di contrasti interiori, di sensi di colpa. Di un amore infinito, che a volte non riusciva a non trasformarsi in freddezza e distacco. “Quando il giorno è arrivato, questa ‘cosa’ nel suo primo attimo di vita non ha pianto, mi ha guardata dritto negli occhi come se stesse supplicando per la sua vita. Era femmina e ho pensato: Dio mio, può succederle la stessa cosa e non è colpa sua.” Per tre mesi, dopo il parto, non è riuscita neanche a prenderla in braccio. “Se un attimo prima avrei voluto che me la portassero via, poco dopo l’avrei voluta tenere con me. Quando, crescendo, ha iniziato a chiedermi chi fosse il padre non sapevo cosa risponderle. C’è voluto tempo e un percorso di terapia. Ma lei è tutta la mia vita”.

Tra i volti di “Breaking free” ce ne sono alcuni che raccontano una realtà diversa da quella degli stupri di guerra, ma che ne sconta le stesse conseguenze. “Appartengo alla categoria dei figli degli operatori umanitari, il mio cognome parla da sé e per questo subisco ancora discriminazioni”. Il padre di Nadia Delic-Klevstad è norvegese, sua madre bosniaca. Ogni volta che si presenta a qualcuno deve spiegargli che è per metà scandinava, ma non parla la lingua e non ha mai vissuto in Norvegia. Che non ha mai avuto la possibilità di studiare nemmeno in Bosnia perché ha rinunciato alla cittadinanza bosniaca per poter conservare quella norvegese e così non ha avuto accesso alla borsa di studio. Che suo padre rifiuta qualsiasi contatto con lei. “Questa è la parte più difficile, mi sento come la terra di nessuno.” Lo stesso vale per Ivana Barbara Cook, che ha sempre saputo di avere un padre, dall’altra parte del mondo, che non voleva avere alcun tipo di rapporto con lei: “Lui vive all’estero con la sua seconda moglie e i suoi due figli. Io sono nata dalla guerra e dal quel genere di padre che viene in Bosnia e poi pensa di poter fuggire dalle sue responsabilità. Sono figlia di un operatore di pace”.

2mila sarebbero i bambini nati dagli stupri commessi durante la guerra in Bosnia. Una parte di loro ha costituito l’associazione Forgotten children of war association: hanno un’assistente legale e dal 2017 chiedono alla società bosniaca di vedere riconosciuti i loro diritti

È anche per i figli di “caschi blu” e volontari di missioni umanitarie straniere che Ajna ha portato la battaglia di Forgotten children alla sede delle Nazioni Unite, dove ha parlato a tutti i rappresentanti dell’Onu in nome dei bambini nati dal conflitto. “All’Onu hanno dovuto accettare il fatto che i figli dei soldati stranieri esistono, sono qui, vivono e respirano. Non è solo un problema della Bosnia ed Erzegovina, ma di tutti i paesi postbellici o in guerra. La comunità internazionale deve affrontare questo tema, da un punto di vista umano e politico.” Ed è per tutti i bambini nati dai conflitti, anche in altri Paesi del mondo, che Forgotten children sta lavorando attivamente alla formazione della prima legge -una legge storica- per riconoscere i figli della guerra come categoria vulnerabile.

“Sarebbe una legge unica, oggi la nostra associazione sta cercando di creare un modello di lavoro che possa essere d’aiuto anche ad altri Paesi che affrontano lo stesso problema”. Si pensi al Kosovo, ad esempio, al Ruanda o alle donne dei campi di detenzione libici. “Abbiamo passato anni ad aspettare che qualcuno ci scoprisse e a chiederci perché le nostre madri continuassero a soffrire per una società che non aveva intenzione di accettarle. Oggi la gente si interessa, si pone domande. È dura ma per il nostro Paese è un passo storico avere un’associazione come la nostra che ha portato alla luce questa storia. E per noi è un po’ più semplice vivere in Bosnia perché ora tutti sanno che esistiamo”.

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