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Approfondimento

Figli di troll

In Rete chi insulta (e diffama) riesce quasi sempre a farla franca. Le leggi ci sono, ma -specie per i portali d’informazione- il volume dei ricavi dipende direttamente dal traffico. Perciò si chiude un occhio, anche perché chi tenta di emanciparsi dal binomio traffico-inserzioni, come ha provato a fare il quotidiano inglese The Sun, dimostra che è un compito arduo —

Tratto da Altreconomia 162 — Luglio/Agosto 2014

C’è chi esulta per l’affondamento di uno scafo carico di migranti il 3 ottobre 2013 (“Che goduria” per le 366 vittime è un commento pubblicato su ilgiornale.it), chi suggerisce a una segretaria di vendere il proprio corpo ad un assessore regionale ad un prezzo maggiorato (su ilfattoquodiano.it), chi ritiene che un ragazzo palestinese stia recitando subito dopo esser stato raggiunto a morte da un cecchino israeliano. A chiunque è capitato d’incontrare in quella prateria chiamata Rete -dove secondo i dati dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) ogni giorno, in Italia, si sparpagliano 32 milioni di utenti unici, 1,5 miliardi nel mondo- gli autori di queste assurdità (talvolta diffamatorie): sono i “trolls”, ma chiamateli come volete. Il sociologo Ilvo Diamanti ha coniato una definizione calzante, la “civiltà delle cattive maniere”.

Il popolo della Rete. È una civiltà che entra dalla porta principale di internet “primariamente” da casa e da lavoro, e che il modello economico del web, numeri alla mano, è tenuto a tollerare, generandola. Lo sanno bene i principali fornitori di news on line in Italia (dai quotidiani –repubblica.it, corriere.it– ai portali –Libero-, dai social media –Facebook– agli aggregatori -Google News-), che per natura e funzionamento della navigazione nostrana fungono da magnete di buona parte del traffico giornaliero. Secondo un’indagine di mercato svolta nel 2013 da SWG per conto dell’AGCOM, infatti, internet è considerato dal 40% della popolazione un mezzo per cercare e raccogliere informazioni, rappresentando perciò, come scrive l’Autorità nell’ambito della “Indagine conclusiva sul settore dei servizi internet e sulla pubblicità on line” (gennaio 2014), “un mezzo di informazione, che riveste un’importanza, ai fini della tutela del pluralismo, sorprendentemente simile a quanto avviene in Paesi, quali Regno Unito e USA”. Nel 2013, il 21,5% degli utenti web italiani -e cioè 6,8 milioni di persone- ha utilizzato Google come “sito on line per informarsi”. Poi la Repubblica (17,3%), il Corriere della Sera (9,5%), l’Ansa (8,9%) e Facebook (7,1%), TGCom (5,1%). È un servizio gratuito, quello dell’informazione, e dalla “incerta sostenibilità finanziaria”, “per cui la valorizzazione dei contenuti informativi digitali si basa principalmente sulla generazione di audience al fine della vendita di contatti agli inserzionisti di pubblicità”, riconosce l’AGCOM. Per sopravvivere c’è bisogno di traffico, dunque, e di pubblicità. Specie per i quotidiani “digitali”, per i quali l’85% dei ricavi è assicurato da réclame. Una torta, quella del fatturato della pubblicità on line in Italia, che ha raggiunto il valore di 1,5 miliardi di euro nel 2012. Ed è proprio “la struttura del settore della pubblicità on line”, sostiene l’AGCOM, ad essere “in linea con gli assetti mondiali” confermandosi “concentrata, con un solo operatore, Google, che detiene un’ampia porzione delle risorse economiche del comparto, seguito da una moltitudine di operatori, con quote sensibilmente inferiori”.

Commento in attesa di moderazione.
Eppure le norme per perseguire chi abusa della bacheca sul web esistono. Quel che manca sono gli strumenti per applicarle. L’avvocatessa Caterina Malavenda, tra i più preparati giuristi italiani in materia di diffamazione e tutela dell’onorabilità personale, ha da sempre denunciato la difficoltà collegata all’identificazione di chi naviga, quando si macchi di un comportamento penalmente rilevante. Le norme previste sono contenute nel codice penale (all’articolo 595, in questo caso), gli strumenti invece sono a disposizione -tra gli altri- del commissariato on line di Polizia, e cioè la Polizia postale (www.commissariatodips.it), cui si può segnalare un abuso e poi attendere un riscontro. Alcuni anni fa, l’autore di quest’articolo venne apostrofato con “in manette” e “fermato” perché ritenuto “coinvolto” in una vicenda di pedofilia, in calce a un video pubblicato su YouTube. Il nome utente del diffamatore era “magopotenza”. Il tempo di accorgersi dell’infamia che il coraggioso aveva già estinto l’account, cancellando dietro di sé ogni traccia (commento compreso). Ma né YouTube né la Polizia postale sono stati in grado di indicare una strada sicura per recuperarlo. E di fango simile ne scivola parecchio. Tanto, ma non secondo chi, come Google, diffonde dati miseri nell’ambito del suo “Rapporto sulla trasparenza”: da gennaio a giugno 2013, le ordinanze di tribunali italiani volte a rimuovere dei contenuti pubblicati sui portali del colosso (Google.it, YouTube, etc.) per cause di diffamazione sarebbero state solamente 27. Per il 56% dei casi andate a buon fine.

I numeri di Google stridono se paragonati indirettamente con i circa 10mila messaggi che ogni giorno -per 200mila euro all’anno- la milanese i-Side Srl si ritrova a dover “moderare” per conto della versione on line de Il Fatto Quotidiano (www.ilfattoquotidiano.it). A detta dell’amministratore unico della società, Davide Romieri, se ne occupano una ventina di giovani operatori -soprattutto studenti-, amanti della lettura e disposti su più turni. Una “netiquette” (come un codice dei commenti) regola il taglio, mentre un responsabile editoriale vigila affinché i forum del cliente, in questo caso i pezzi del Fatto, non ospitino risse da bar.

C’è un giudice a Tallinn.
È un compito delicato il loro, specie per l’orientamento della giurisprudenza comunitaria più recente. Il 10 ottobre 2013, infatti, la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha sancito la non violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea (dedicato alla “Libertà di espressione”) da parte dell’Estonia, che aveva multato pochi anni prima uno tra i più importanti portali on line chiamato “Delfi” (che pubblicava almeno 330 notizie al giorno), perché ritenuto corresponsabile dei commenti diffamatori che non aveva moderato. A dimostrazione che alcuni argini ai “trolls” esistono.
Davide Romieri di i-Side, seppur in maniera del tutto grossolana, ha stimato per sua esperienza in un 30% la fetta di professionisti della denigrazione, i “trolls”.

“I ‘trolls’ vogliono solo divertirsi”. I primi che a livello internazionale hanno cercato di tracciarne un identikit sono stati tre ricercatori delle università canadesi di Winnipeg e Vancouver, che nel gennaio scorso hanno curato e pubblicato un breve paper intitolato “Trolls just want to have fun” (I “trolls” vogliono solo divertirsi). È un’analisi interessante, cucita sulle abitudini dei naviganti “antisociali”, che dimostra la stretta correlazione tra chi disturba per il solo gusto di farlo e una componente marcatamente sadica (“Vicarious Sadism”). Agevolata da quell’ambiente anonimo che è internet.

Il “caso Sun”. Tentare di emanciparsi dal binomio traffico-inserzioni, che comporta quindi anche la visita dei trolls, non è semplice. Il quotidiano inglese The Sun (www.thesun.co.uk) ha provato a ripagare in altro modo il “costo” dell’informazione, introducendo nel 2013 il sistema di “paywall” -e cioè una forma di pagamento dei contenuti da parte degli utenti-. E ha fatto marcia indietro. I visitatori unici per mese sono passati dai 5,7 milioni di luglio agli 800mila di ottobre, (meno 85% in tre mesi), e le pagine visualizzate sono crollate da 29 a 2 milioni, con una contrazione del 93%.Senza pubblicità non c’è alcuna sostenibilità economica. E senza sostenibilità la qualità dell’informazione, in uno strano testacoda di causa-effetto, regredisce. Lo riconosce ancora una volta anche l’AGCOM, quando scrive che se “l’affermazione dell’informazione on line sta determinando ricadute positive sul benessere sociale, in quanto genera un surplus informativo spesso a costo quasi nullo per i cittadini, dall’altro lato, la riduzione delle fonti di reddito rischia di danneggiare durevolmente la qualità e la veridicità dell’informazione”.

Una Costituzione per la Rete. Pretendere regole certe e strumenti efficaci è perciò la migliore assicurazione sulla vita -e sulla qualità- della Rete. Che va difesa, anche perché ad oggi gli unici produttori di quelle regole sono gli stessi soggetti -pochi- che la governano. Google, ancora una volta, e (anche) Facebook. È di Mark Zuckerberg  -celebre fondatore del social network- la celebre frase “la privacy è finita”. E Stefano Rodotà -ex Garante  per la protezione dei dati personali in Italia- è il giurista che più si è occupato e si sta occupando di quella che lui definisce la “dimensione costituzionale della Rete”. Vi ha dedicato anche un convegno, a giugno 2014, alla Camera dei Deputati (documenti.camera.it/Leg17/Dossier/Pdf/ID0012.Pdf). La questione è duplice. Da un lato c’è il tema della conservazione dei dati personali e dall’altra il cosiddetto “diritto all’oblìo”. Entrambi, secondo la Corte di giustizia europea, non riducibili al mero interesse economico delle multinazionali della Rete. Non a caso l’8 aprile 2014 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha dichiarato invalida la direttiva 2006/24/CE sulla conservazione dei dati generati o trattati nell’ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione, perché fonte di “un’ingerenza di vasta portata e di particolare gravità nei diritti fondamentali al rispetto della vita privata e alla protezione dei dati di carattere personale, non limitata allo stretto necessario”. E ancora, il 13 maggio, a proposito del diritto di essere dimenticati (oblìo), la Corte ha sancito che “l’interferenza con il diritto della persona alla protezione dei dati non può essere giustificata meramente dall’interesse economico del motore di ricerca” (Causa C-131/12). Eppure quella Rete trasformata ormai in una “miniera a cielo aperto” (Rodotà) per via del ricorso sistematico alla profilazione a fini commerciali dell’utenza non è tale per chi voglia perseguire chi diffama.
L’unico obiettivo -sempre secondo l’AGCOM- è “far giungere la propria pubblicità agli utenti che, sulla base dei dati raccolti, si presume abbiano maggior interesse ad acquistare il loro prodotto/servizio”. La platea dei potenziali consumatori va incrementata -violandone talvolta la privacy-, in tutti i modi. La giustizia è un brand sfortunato. —

L’incontinenza verbale su internet
“Cogliona di merda, non servi a nulla“. “Vergognati, vai a cagare, parassita”. Le notissime vicende della giornalista de l’Unità Maria Novella Oppo o della presidente della Camera Laura Boldrini non sono che il picco eclatante della “democrazia dell’insulto”. “Gigi er bullo”, “nike di samotracia”, “Snake_Plisskeen”, “Captain Morgan” sono i protagonisti di “No comment”, il libro-inchiesta immerso nella grande Rete a cura di Altreconomia. Dalla democrazia diretta all’oligopolio dell’insulto, dalla condivisione non mediata al più basso livello della diffamazione, dai liberi contenuti alle aggressioni sorde. Ma non è affar da galateo o codice penale, non solo. L’immediatezza del commento genera traffico, e il traffico alimenta introiti pubblicitari. In un modello economico, peraltro, che ha un disperato bisogno di traffico e audience -anche la più becera- purché siano fonte di dati personali asservibili al mercato. Al centro dell’inchiesta di Ae, finiscono moderatori e moderati, controllori e controllati, giudici e giudicati, in Italia e in altri Paesi: gli anelli di una catena un po’ maleducata e un po’ interessata, che conduce a un punto talmente alto da dar quasi le vertigini: la democrazia. Con interviste e contributi di Caterina Malavenda, Stefano Rodotà e Alessandro Robecchi.
“No comment. Troll & Co. Democrazia dell’insulto e violenza sul web”, a cura di Altreconomia (128 pp., 12,90 euro). In libreria, nelle botteghe del commercio equo e solidale, sul sito di Ae (altreconomia.it/libri).

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