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I festival europei cambiano musica. La trasformazione è sotto il palco

L’Europa delle grandi rassegne sembra non conoscere crisi. Ecco le proposte dell’estate, tra formule diverse, sperimentazioni (non sempre commerciali) e nuove esigenze degli spettatori. L’Italia fatica a fare massa critica

Tratto da Altreconomia 206 — Luglio/Agosto 2018
Concerto Roskilde Festival, dal 1971 registra spesso il tutto esaurito © SH Luftfoto / Stiig Hougesen - www.sh-luftfoto.dk

Arrivata l’estate e come ogni anno esplode la scena dei grandi festival musicali all’aperto. In giro per l’Europa sono oltre cento gli eventi con un pubblico superiore alle 10mila persone al giorno, un quinto dei quali registra oltre 50mila spettatori. Il panorama è affollato, ma sembra non conoscere crisi: se in un anno le presenze complessive sotto i palchi dei festival europei superano ampiamente i tre milioni, nel 2017 il 53% di questi eventi ha ottenuto il tutto esaurito, secondo una ricerca di Live Data Agency.

“Il nostro è un business ‘sano’: chi ci paga è il cliente finale”, dice Ventura Barba, Ceo del Sonar, grande festival di musica elettronica di Barcellona che nel 2017 ha registrato 124mila spettatori (erano 6mila all’esordio nel 1994). “Non dipendiamo in maniera vitale da sponsor o contributi pubblici e questo ci permette di rimanere indipendenti”. Per il 2017 il Sonar dichiara di avere ottenuto il 75,6% delle entrate attraverso risorse proprie -biglietti, in primis, e poi cibo e bevande-, una quota di sponsor privati del 17,4% e un 7% di finanziamenti pubblici. Cifre in linea con l’esperienza dello storico organizzatore di concerti, Claudio Trotta: “In media un festival ottiene metà delle entrate attraverso biglietti e abbonamenti, mentre gli sponsor privati e la componente di food and beverage valgono il 25% ciascuna”.

Ma i modelli di business e organizzativi possono variare parecchio. Il più longevo festival rock europeo -il danese Roskilde, in programma la prima settimana di luglio-, dal 1971 registra spesso il tutto esaurito. Da sempre Roskilde, organizzato da una fondazione, dona in beneficenza tutti i profitti (2,23 milioni di euro nel 2017) e può contare sul lavoro di ben 30mila volontari. “Sarà sempre così per noi: la maggior parte di chi lavora a Roskilde, infatti, lo fa per scelta personale -spiega Christina Bilde, portavoce del festival-. Dagli anni Settanta a oggi abbiamo devoluto 36 milioni di euro a charities di ogni tipo. Siamo un festival unico nel suo genere”.

Un altro genere di dedizione alla causa lo mostrano i 135mila affezionati di Glastonbury, il principale festival britannico, che ogni anno, con sette mesi d’anticipo, acquistano l’abbonamento per i cinque giorni di musica, senza conoscere nemmeno un nome tra quelli dei musicisti che si esibiranno. Il cartellone degli ultimi 30 anni del festival, del resto, ha sempre garantito nomi di richiamo: da Springsteen agli U2, dai Metallica a Beyoncé, oltre a big britannici come Blur, Oasis, Pulp e Radiohead.

Ma c’è anche chi vede con disincanto l’evoluzione dei grandi festival contemporanei. “Oggi questi grandi raduni rock sono simili a luna park in cui la componente di divertimento extramusicale è molto spiccata”, osserva Enrico Gabrielli, che con la band di Pj Harvey e con i propri progetti musicali (su tutti i Calibro 35) ha partecipato a festival di dimensioni molto diverse, sia da headliner che da comprimario. “La tempesta di informazioni che arriva allo spettatore può distrarlo dal percorso di ascolto puro. Gli sponsor, per esempio, portano una sensazione di extramusicalità che spinge lo spettatore a comportarsi in maniera più disimpegnata. In un festival senza pubblicità, invece, si ascolta la musica in maniera diversa. È un fatto subliminale e non riguarda solo gli sponsor”. Al Down The Rabbit Hole, neonato festival olandese che presenta una componente di divertimento extramusicale molto spinta -dai giochi alle attività circensi- “il concerto di Pj Harvey è stato uno dei meno seguiti. Il pubblico pareva distratto, bombardato da altre informazioni”.

É il modello culturale di molti festival che sembra lentamente adeguarsi alle esigenze del business. Questo può avvantaggiare alcuni artisti, ma anche infastidirne altri. “La deriva commerciale può sfociare in inquinamento visivo e talvolta persino in sciatteria”, continua Gabrielli. “Allo Sziget di Budapest, Pj Harvey era infastidita dalla presenza di tutti quegli sponsor: sembravano quasi rivolti a noi che stavamo sul palco. Al ToDays di Torino, invece, non avevamo vista sulle pubblicità; in compenso c’erano una cinquantina di gabinetti chimici in fila, che dal palco vedevamo benissimo”. Resta il fatto che, negli ultimi anni, gli organizzatori hanno iniziato a offrire al pubblico un prodotto sempre più ludico, personalizzato e confortevole. Secondo il Financial Times, lo spettatore medio ha infatti superato i quarant’anni, un’età in cui il potere di spesa è più alto rispetto a quello dei ventenni, ma la resistenza alle scomodità assai minore. Spendendo di più rispetto al normale prezzo del biglietto d’ingresso -il costo medio dell’abbonamento full festival in Europa è di 148 euro- si può vivere un’esperienza “vip” con comodità come il campeggio di lusso dello Sziget, con piscina e tende già montate. Gli abbonamenti premium -offerti ormai da moltissimi festival- propongono invece l’accesso a un’area riservata nelle prime file, di fronte ai palchi principali. Negli Stati Uniti si è sperimentata anche la possibilità di prenotare il proprio posto in un prato, come è avvenuto nel 2016 nella finora unica edizione del californiano Desert Trip Festival, per assistere alle esibizioni di colossi della storia del rock come i Rolling Stones, Paul McCartney, Bob Dylan e gli Who.

“La tempesta di informazioni che arriva allo spettatore può distrarlo. In un festival senza pubblicità, si ascolta la musica in maniera diversa” – Enrico Gabrielli

Del resto, anche la programmazione musicale si adegua in questi anni al pubblico sempre più stagionato ed esigente: “Il rock si sta classicizzando -spiega Gabrielli-. In molti festival odierni si organizzano reunion di band che hanno rappresentato gli ultimi fuochi per un certo modello di fruizione della musica, con l’acquisto del disco e così via. Sono proprio questi dischi che spesso vengono suonati live nella loro interezza, come hanno fatto Pixies e Sonic Youth, fra i primi”. Ma se queste derive, fra citazionismo e nostalgia, restano connesse al tradizionale immaginario dei festival rock, prendono sempre più spazio nuovi tipi di offerta, lontani da questo spirito. Per esempio, l’ultima edizione del Primavera Sound -che a Barcellona conta oltre 200mila presenze all’anno – ha visto il debutto di “Primmmavera”, un vero e proprio cartellone di chef stellati. Prenotando il proprio tavolo nei giorni precedenti il festival, era possibile cenare tra un concerto e l’altro in un vero ristorante, non lontano dai palchi, con prezzi adeguati alla cucina di chef come Diego Guerrero, due stelle Michelin.

Unisce cibo e musica anche il danese Haven, nato nel 2017, valido esempio della nuova generazione dei “festival-boutique”. Haven si autodefinisce un “festival per i sensi”, costa fino a 200 euro per un cartellone ridotto, ma offre (pagando a parte) cibo gourmet e birre artigianali, da gustare immersi in un contesto d’installazioni artistiche. Un’esperienza esclusiva, quindi, come quella del Kala Festival, in Albania, che promette un mare incontaminato a pochi e selezionati spettatori, che partono in traghetto da Corfù, in Grecia, per arrivare a Kala “dopo qualche cocktail”.

Un momento del Sonar festival 2018, a Barcellona. © sonar.es/en/2018/galleries

In questa Europa, l’Italia non riesce a fare massa critica. Esistono diversi festival di piccole dimensioni, spesso ospitati da luoghi di villeggiatura -come il Beaches Brew a Marina di Ravenna, il Viva! in Val d’Itria, il Siren a Vasto o l’Ypsigrock a Castelbuono, in provincia di Palermo-, ma un grande festival non viene organizzato da anni. L’ultima edizione dell’Heineken Jammin’ Festival si è tenuta alla fiera di Rho nel 2012. “Nel nostro paese non abbiamo strutture per la musica -spiega Claudio Trotta- e nemmeno una formazione professionale: è certamente strutturale la causa principale della mancanza di grandi manifestazioni live in Italia. Da noi si vendono molti biglietti per i grandi concerti del singolo artista, eventualmente ‘travestiti’ da festival”. Così, gli italiani interessati a un grande festival sono costretti a viaggiare. Perchè al giorno d’oggi, conclude Trotta, “il festival è diventato anche un’esperienza turistica, dove le star sono gli spettatori, non chi sta sul palco”.

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