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Federico, mio figlio

Il 25 settembre di nove anni fa quattro agenti di Polizia causavano la morte di Federico Aldrovandi, a Ferrara. Attaccati dai sindacati degli agenti e dimenticati dalle istituzioni, i familiari delle vittime e le loro vite nel racconto amaro di Patrizia Moretti, madre di Federico  —

Tratto da Altreconomia 162 — Luglio/Agosto 2014

Patrizia Moretti è la madre di Federico Aldrovandi, nato il 17 luglio 1987 e ucciso il 25 settembre 2005 in via Ippodromo, a Ferrara, per mano di quattro agenti di Polizia. Sono passati nove anni dall’omicidio e due dalla sentenza definitiva di condanna per “eccesso colposo in omicidio colposo” a carico di Monica Segatto, Enzo Pontani, Luca Pollastri e Paolo Forlani. Ed è passato un anno dal “picchetto” che il sindacato degli agenti Coisp organizzò sotto alla finestra del suo ufficio al Comune di Ferrara, lo stesso dove siede durante la nostra intervista.

Signora Moretti, che cosa accadde dopo quel “presidio”?
Come tutti questi nove anni, sono stati tempi molto difficili, molto duri. Ma lo saranno anche gli anni a venire. Dopo quella ferita, per me molto importante, e quel dolore rinnovato, è nato il progetto di “Una sola stella nel firmamento” (vedi box), un libro frutto dell’incontro tra me e Francesca Avon (scrittrice e psicoanalista) avvenuto due settimane dopo l’apparizione del sindacato di polizia Coisp qui in piazza.
Quel che è scaturito dall’incontro con Francesca è stato il poter parlare (e scrivere) liberamente, raccontare -e per me esprimere- qualcosa che riguardasse Federico.
Federico in quanto persona, la sua famiglia, noi, le persone, e non solo più quel che si era sentito fino a quel momento: del caso giudiziario o delle parti anatomiche di Federico, delle azioni o delle condotte dei suoi assassini.

Nel libro scrive: “Questi momenti pubblici, le cerimonie, gli incontri, la cittadinanza onoraria, tutto questo deve avere una fine. Non può essere per sempre”. E ancora: “Non posso continuare a rappresentare il dolore. Ho bisogno di fare altro, di cambiare i pensieri. Devo darmi un respiro”. Come è maturata questa convinzione?
Io sono e sarò sempre la mamma di Federico. Il “caso Aldrovandi” -inteso come la vicenda giudiziaria- si è chiuso. Per me questo libro poteva essere la definizione di un tutto, aggiungendo -e terminando- con quella parte personale. Tutto questo per porre fine a quell’esposizione pubblica che sono stata costretta a sostenere, e che comunque rifarei, perché era l’unica strada. Non è assolutamente facile per chi ha subito un lutto così tragico essere costretti a parlarne in pubblico, a esporsi. È una motivazione fortissima, ma ti stai imponendo una costosa forzatura, in termini di risorse emotive. Parlare di come è stato ucciso mio figlio è una cosa contro natura, e c’è un momento in cui bisogna ripiegare. Penso di aver fatto tutto il possibile e di aver ricevuto tutto il possibile. Averne fatto una questione sociale, pubblica, è stata l’unica strada per arrivare a un processo, alla verità. Perché per me la giustizia “vera” è la coscienza civile di quel che è successo, la consapevolezza che hanno le persone delle responsabilità in capo agli assassini di Federico e anche delle persone che hanno coperto l’operato dei colleghi, depistando le indagini.

Quanto hanno pesato i gesti delle sigle sindacali a riguardo, la loro continua ricerca di un conflitto, l’applauso riconosciuto durante il congresso del Sindacato autonomo di polizia (Sap) ai quattro agenti condannati?
C’è un momento in cui i familiari delle vittime devono sottrarsi a questo confronto diretto, perché forse rappresenta una scorciatoia -almeno così a me pare- per chi sostiene l’operato dei poliziotti che hanno ucciso mio figlio e costruito l’insabbiamento. Per me è un confronto atroce, insostenibile, per loro è molto facile perché in fondo te la stai prendendo con una persona, una donna, una mamma, e non in realtà con chi ti può realmente dare una risposta. Ora il dialogo è a un livello molto più alto di quello che io posso sostenere. Rivolgendosi a me non fanno altro che propaganda, per la propria campagna elettorale all’interno del sindacato. Io non voglio più confrontarmi con loro, non voglio più parlare con loro, perché ho solo il dolore infinito della perdita di mio figlio.

Ritiene che il nostro Paese sia pronto a fare a meno del modello d’impegno diretto rappresentato dai familiari delle vittime?
Ho maturato questa decisione perché penso di potermela concedere, perché la mia voce si è moltiplicata. C’è una richiesta che non è più soltanto mia ma è di gran parte della società italiana, specie dei giovani. Loro sono la voce di Federico, di Uva, di Ferrulli, di Cucchi (vedi box qui a fianco). Questa voce si è moltiplicata per mille e io penso che sia giusto sottrarmi a questo confronto stretto, a questa guerra che queste persone ci hanno dichiarato, venendoci a cercare. Io non voglio parlare con Tonelli (Gianni Tonelli, presidente del Sap, ndr) o con Maccari (Franco Maccari, segretario generale del Coisp, ndr). Non mi sottraggo al futuro, sento molto la responsabilità di lasciare qualcosa di meglio ai nostri figli, alla generazione che ci segue. Però i miei interlocutori non sono quelle persone.

Che spiegazione si è data di quell’applauso del Sap?
Io non riesco a darmi una spiegazione, non ce la faccio. Mi chiedo però: che cosa c’è di sindacale in quel comportamento? Che cosa c’è di sindacale nel solidarizzare con quattro condannati per omicidio? È propaganda politica, non attività di un sindacato. Trovo sovversivo questo confondersi dei ruoli. È una sovrapposizione che vuole essere sopraffazione della stessa politica. Breve o lungo che sia stato, credo che un applauso a delle persone che hanno ucciso un ragazzo in una maniera così efferata sia agghiacciante. Non è questa la polizia che la gente vuole. O meglio, io certamente no.

A giugno è stata pubblicata la fotografia di un uomo legato mani e piedi, pancia a terra, in un commissariato di Monza. È cambiato qualcosa in questi nove anni?
L’unico cambiamento che registro è l’uso dei telefonini, ormai la difesa estrema di chi subisce violenze. Nel caso di Stefano Gugliotta, per fortuna, una persona dalla finestra ha filmato tutto. Nove anni fa purtroppo i telefonini con la videocamera non erano così diffusi. Io però ho chiesto al Presidente del Consiglio, al Presidente della Repubblica, al ministro dell’Interno di intervenire. E tutti concordano. La deriva di violenza ormai è conclamata, è una realtà. In qualche modo va arginata, è come una malattia che necessita di una cura. E questa cura deve venire dallo Stato. Purtroppo però non ho ancora visto nessuna azione concreta. Questo governo si è appena insediato, ma in questi nove anni di governi se ne sono succeduti diversi. E alla solidarietà incontrata ai massimi livelli non ha mai fatto seguito un’iniziativa efficace. Molte persone hanno aperto gli occhi. È bene che lo faccia anche chi ci rappresenta.

Ha l’impressione di aver incontrato in questi anni il consenso di una maggioranza silenziosa o la solidarietà di una minoranza combattiva?
C’è ancora molta strada da fare. Però penso e spero di non essere né nell’una né nell’altra condizione. Spero di essere nella transizione, sulla via del cambiamento. So che sono temi molto difficili -io stessa li conoscevo assai poco- ma ho visto crescere una consapevolezza diffusa. Nelle relazioni e nel consenso che incontro posso dire che è un tema sentito, importante. Se mi sottraggo al confronto diretto con quei sindacalisti in realtà non significa che io non esisto. Io ci sono, Federico c’è, così come ci sono tutti gli altri casi. Esistono. E spero che quell’esperienza tragica attraversata possa essere d’aiuto, che questo dolore possa produrre qualcosa. E ciò dipende solo dalla pressione pubblica.

Il suo fiero sconforto è comunque uno sguardo avanti.
Non riesco a fare a meno di pensare al futuro perché comunque mi trovo nella necessità di guardare al futuro come lo guarderebbe Federico. E quindi non posso evitare di sperare che le cose cambino.

Qual è l’elemento che l’ha delusa maggioramente, in questi nove anni?
La batosta più grossa riguarda la mancata perdita della divisa. Sinceramente ci credevo. E invece ci sono stati soltanto 6 mesi di sospensione, dopodiché chi ha ucciso un ragazzo è tornato a fare lo stesso lavoro di prima, con le stesse prerogative, con la stessa divisa. Secondo me quella divisa non la meritano e quello che mi lascia l’amaro in bocca è il constatare invece che secondo le istituzioni, i vertici della Polizia, quelle persone meritano quella divisa, tant’è che gliel’hanno lasciata.
Questo mi lascia dentro una grande paura. Questo è il vero cambiamento, personale: ora ho paura di loro. Capisco che sia poco razionale, ma vedere una macchina della Polizia mi fa molta paura, non ci posso fare niente. E io so che questo sentimento è condiviso. Che cosa vogliono dall’alto della Polizia? Vogliono questo? Credo che nel prossimo futuro -e penso non si dovrà attendere molto- la risposta l’avremo. Dobbiamo avere paura di loro oppure no? Siamo in uno Stato democratico, dove la Polizia è al servizio del cittadino oppure no? In un modo o nell’altro, la risposta l’avremo. Quale sia non lo so. —

Cronaca giudiziaria
“Non luogo a procedere” è la formula che da sei anni non concede tregua a Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto il 14 giugno 2008 dopo esser stato arrestato e condotto in una caserma di Varese. Dopo anni di mancate indagini e la (tardiva) sottrazione del fascicolo al pubblico ministero Agostino Abate, il 9 giugno scorso il “nuovo” rappresentante dell’accusa -Felice Isnardi- ha chiesto il proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintenzionale e di arresto illegale per sei poliziotti e un carabiniere.
Di tutt’altro esito invece lo stato dei processi per la morte di Michele Ferrulli -avvenuta a Milano il 30 giugno 2011- e il violento pestaggio subito da Stefano Gugliotta -a Roma, il 5 maggio 2010-. Nel primo caso la pubblica accusa del capoluogo lombardo ha chiesto 7 anni di carcere per omicidio preterintenzionale e falso in atto pubblico per quattro poliziotti, responsabili del violento pestaggio e della sottomissione del 51enne in via Varsavia (la Stampa l’ha definito “facchino con alcuni precedenti per resistenza a pubblico ufficiale”); nel secondo, invece, il giovane Gugliotta (ora trentenne) ha visto finalmente condannare in primo grado i nove agenti che furono protagonisti e autori di lesioni gravi. Calci, pugni e manganellate fortunatamente immortalate dalla lente di un telefonino, poco dopo la finale di Coppa Italia tenutasi allo stadio Olimpico.
Il processo di appello per la morte di Stefano Cucchi, ancora senza giustizia, inizierà invece a settembre. A questa vicenda abbiamo dedicato il libro “Mi cercarono l’anima” (Altreconomia edizioni, 2013).

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